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Adamatricevic

Le mie radici
12/05/2007 08:43 PM


Tutto ebbe inzio tanti anni fa, addirittura vi parlo dei miei primi ricordi di fanciullo.

Ero piccolo e litigavo con mia madre per non farmi pettinare, e allora lei diceva sempre che sembravo uno zingaro.

Poco dopo, in pieni anni '90, ai tempi della caduta del comunismo in Albania qualcuno comincò a prendersi gioco di me, dicendo che sembravo un profugo di Durazzo.

Non molto tempo fa, in Grecia, certo che la cosa non si sarebbe ripetuta, sono stato scambiato per uno dei Romeni dei campi intorno Iraklio.

Ora sono in Bosnia, e i bimbi Rom e gli orfani che passeggiano per strada mi hanno suggerito di tagliare la barba  e curare di più il mio aspetto.

Sono stufo.


Stasera taglio la barba, e mi vado a comprare una giacca.

Dove pensavo di Andare?
12/10/2007 05:45 PM


Sabato 3 Novembre 2007, alle 11 della mattina , il treno scuote le teste dei passeggieri all'indietro nell'attimo in cui le ruote, spingendo sui binari, danno il primo faticoso impulso della partenza.

Il mio capo si flette leggermente, sorpreso dal moto, costretto da una piccola forza invisibile, mentre guardo la banchina cominciare a trascinarsi dal finestrino, ancorata alla stazione , che è a sua volta ancorata a Milano.

Appena usciti, il treno si ritova a correre nel sole di questo sabato novembrino dall'aria tanto tiepida da sembrare Maggio, e si incammina risoluto ad Est, verso Trieste.

Ancora, come mi è già capitato in passato, intuisco ora come fosse un odore vago, noto ma non riconosciuto, il momento in cui non potevo più tornare indietro, la certezza che ciò che prima di allora non era stato altro che un'ipotesi, prendere corpo e diventare reale quanto la puzza dei sedili da ferrovia.

In questi momenti importanti, se ti trovi in treno, non puoi fare a meno che guardare fisso nel vuoto, con le sopracciglia aggrottate, come un'idiota pensieroso. Non vale la pena guardare altrove, a meno che non ci sia una bambolona in scompartimento.

Niente bambolona, solo un idiota a guardare fuori dal finestrino.


Sono arrivato a Trieste verso le 5 del pomeriggio, in pieno tramonto, e penso che non avrei potuto vedere questa città con una luce più bella. Il disco solare appena appoggiato sull'acqua, e i raggi rossi che partivano dall'orizzonte, viaggiando paralleli al mare, impressionavano in arancio le ombre in movimento sui muri delle case del lungomare .

Era la festa di San Giusto e la folla acclamava i plotoni dell'esercito italiano che marciavano in Piazza Unità d'Italia, nel giorno dedicato al loro struscio....Trieste che esulta all'arrivo dei bersaglieri in corsa, Trieste che sfoggia patriottismo.... A Trieste, camminando , ho visto gente strana, che vestiva in modo strano e che parlava in modo strano;“Trieste non è Milano”, mi sono detto.....perchè sono un tipo perspicace.

Non tedierò troppo i lettori con un  viaggio durato quasi 24 ore, passate per la maggior parte in posizioni innaturali, cercando di prendere sonno sui sedili di un pullmann lanciato a velcità inaudite lungo le statali della ex-Jugoslavia, da Trieste a Spalato, incrociando le frontiere di Slovenia, Croazia e Bosnia Hercegovina nel giro di una notte.

Dal momento in cui ho lasciato l'Italia, percorrendo a ritroso come un salmone le vie dei migranti, ho smesso di sentirmi a casa.

* * *

Tra gli incontri di quella notte, quello che più inviso, è stato il poliziotto della frontiera Croata, che subito ha messo in chiaro che il mio viaggio in queste terre non sarà una vacanza di piacere.

L'ho capito, ormai.

Salendo sul pullmann il questurino ha controllato i documenti di tutti, indugiando un po' troppo sul mio. Mi ha guardato a fondo, squadrandomi dalla testa ai piedi come per sfidarmi, come per dirmi :”Tu....tu non mi piaci....”(peccato perchè invece lui era carino)

Poi mi ha sorpassato.

Tornando indietro, lo sbirro, dopo aver rovistato a lungo nella borsa di Caterina , ovvero la mia compagna di viaggio e servizio qui a Mostar, mi ha intimato di seguirlo.

In croazia, come a Milano, come in Spagna, come in marocco, come in Germania, come in Svizzera, come in Russia, come sempre: “Perquisa”.


Ora io non so che impressioni possa avergli fatto, del resto, non posso nemmeno dire che questa sia la prima volta che mi accade...Ma è la prima volta che oltre a perquisirmi,mi fanno restare in mutande alla frontiera.

Vi prego, trattenete l'ilarità che l'immagine di me infreddolito a chiappe al vento dentro al gabbiotto della frontiera croata possa avervi suscitato. Vi prego, lo so che fa ridere, ma vi chiedo per un secondo solidarietà.

Io ci penso, sapete, e se ci penso mi incazzo e più mi incazzo, più ci penso. (Ho chiesto: smettete di ridere).

Mi incazzo perchè mi cercavano addosso uno spinellino, una cannetta microspcopica: ” Do you have hashish?”, solo perchè volevano  mettermi nei guai.....e la soddisfazione nel vedere che non potevano fregarmi, e di vederli delusi perchè io non avevo addosso niente e stata per me l'unica fonte di gioia. (Smettete di ridere, per cortesia).

Era solo per mettermi nei guai. .

Solo quello.

Non cercavano certo trafficanti, tanto più che non si sono presi il distrubo nemmeno di controllarmi il bagaglio: era una semplice operazione punitiva contro di me.

Era solo per mettermi nei guai ?

E loro si sarebbero dati il disturbo di mezzora, setacciarmi le tasche, il portafogli, la giacca fino a mettermi in mutande?!

Ma dai!

Forse, il punto è che sono irresistibile.


(E smettetela di ridere!)


Comunque, via!, anche a me viene da ridere: in Bosnia, Croazia, in tutta la ex-Jugoslavia, di droga ne passa e ne è passata a tonnellate, eppure cercavano qualche grammino d'erba che magari potessi avere io in tasca o arrotolato fra le mie sigarette......Sono solo questioni politiche, perchè su questi temi, in tutto il mondo c'è di che fare politica e di che puntare alle elezioni, e non importa che sia tutto “fumo” che finisce negli occhi e non in gola.

Tutto, sapete, è relativo, ma da quando sono a Mostar, ho scoperto che “ancor più di tutto è ancor di più relativo”.....

A farla breve, eccomi arrivato a Mostar, eccomi entrato nella mia nuova, impersonale, ma confortevole casa. Ormai sono qui.


*   *   *


Mostar e l'Erzegovina. Mostar e Paolo. Tutto ancora da scoprire....

Tutto da scoprire, certo, ma ho capito alcune cose: ho capito che qui all'apparenza tutto è normale, esattamente come sembra pulita una casa in cui lo sporco viene messo sotto il tappeto. Bisogna stare attenti e accendere i sensi.

Se ascolti il vento che spira nella valle di Mostar, se ne annusi il profumo freddo, qui percepisci ancora la rassegnazione e la paura, l'instabilità di chi non può pensare ai programmi a lungo termine. Se ascolti il canto del Muezin scandire i rtimi della preghiera, eccheggiare tra le montagne calcaree e alzi gli occhi, vedrai ergersi ad offesa una gigantesca croce Croata, e capire il fanatismo di una città divisa, e ricongiunta a forza. Se, dal ponte di Tito, segui i flutti verdi della Neretva, ti porteranno dritti al Nuovo Vecchio Ponte e alla Nuova Stari Grad, ricostruiti per curare ciò che ancora non è risanato e duole, come una infezione che cresce sotto la pelle sana.

Mostar, la perla dell'Erzegovina è un Mostro a due teste, una crota e una musulmana, che bramano di essere un corpo solo, anche a costo di decapitarne una.


Mostar è un mostro?

No.O si. Ma è così facile giudicarla da fuori.



Il balcone di Mostar
12/10/2007 05:58 PM

Mostar Violence



E' notte, a Mostar. Il ponte vecchio, e le pietre dal basso, illuminate dai coni di luce gialla.


Sotto la schiena dell'asino scorre la Neretva, eppure non se ne sente il rumore mentre da sopra indugiamo sul panorama annientato dalla nebbia. Il ponte, verosimilmente, potrebbe essere sospeso nello spazio tra due galassie.

A novembre, sullo Stari Most camminano quattro uomini e una donna: due italiani, due bosniaci e uno scandinavo.

I gradini umidi scivolano sotto le suole ad ogni passo, a rischiare l'osso del collo. A parlarne, in

realtà viene da ridere.

La cena è stata buona, tipica cucina erzegovese, a base di carne e zuppe e fritture, nel teatro del centro dalle pietre bianche e dagli angoli caratteristici da fotografia. Camminando, si parla e ci si conosce ostentando nuovi sorrisi che ostentano i sentimenti di una incomprensibile amicizia tra i popoli, mentre il gruppo medita di nascosto su questa improvvisata compagnia.

Dopo il ponte, attraversiamo il Bazar e la vista di Mostar in notturna ci quieta e ci distrae. Poi, riprendiamo a camminare.

Sull'altra riva, in direzione opposta ai cinque, all'altezza della moschea, si oppone una figura scura, grossa, coperta dalla giacca in pelle nera e da un berretto.

E' uno dei tanti ubriachi di Mostar, probabilmente, uno sbruffone. Volutamente , invece di passare di fianco al gruppo, lo attraversa e mi urta la spalla.

Toc, e va oltre.

Va ben, chissenefrega- penso- lascialo andare, il cretino, che se vuol sentirsi il padrone della città....

Mentre accadeva tutto questo e i miei pensieri scorrevano, S. stava avanti a me e ,pur non avendo visto nulla, ha sentito qualcosa. E quel qualcosa non gli è stato affatto chiaro.

S. è un bosniaco di 31 anni. S. è una brava persona. S. non farebbe mai baruffa per primo, anche se S. conosce la violenza, non è certo un signorino: ha fatto la guerra, lui.

S. non voleva far male a nessuno quella sera, ma qui siamo a Mostar, nella sua città, e sta portando in giro gli stranieri amici suoi...E questo, ai suoi occhi, e ai suoi ospiti, non doveva succedere.


Si volta di scatto :” Cosa è successo!??”. Grida.


La figura in nero si volta, e quell'ombra si rivela al gruppo con la sua voce arrogante e la sua mole:

“Che cosa c'è? ...Che hai da dirmi?!??”, purtroppo, anche lui, grida.

I toni si alzano, e S. da persona cordiale e ospitale si trasforma: gonfia il petto e gli si lancia contro. Ho avuto solo il tempo di afferrargli il braccio e tirarlo a me :”S. che fai? Lascialo perdere, non vedi che questo cerca solo rogne?”, ma ormai S. è partito e gli si para contro.

In quel momento l'ombra, placida, muove semplicemente una mano. Dietro la schiena, sotto la giacca.

Il gesto è palese. L'ombra nasconde, o così vuol far credere, una sorpresa nella cinta dei pantaloni, nascosta sotto la giacca di pelle.

Silenzio. Tanto da sentire lo scrosciare giù in fondo del fiume.

Forse è stato solo per un decimo di secondo, ma tutti guardiamo quel gesto e nessuno respira.

Anche S., che ormai gli è contro lo ha visto, gli guarda la mano, ma non tradisce paura e riprende il suo incedere verso l'ombra, ancor più minaccioso di prima.

Forse , finge di non aver paura.


S. ha fatto la guerra a 16 anni, qui a Mostar.

Lui, è figlio di uno dei tanti matrimoni misti della Bosnia, prima della guerra, per metà serbo e per metà musulmano. Ma quando i Serbi hanno attaccato Mostar, lui ha difeso la sua città anche se poteva schierarsi con i “cetnici” (i serbi, in tono dispregiativo) per la sua paternità, come hanno fatto in tanti serbi. Lui ha scelto, ed è rimasto da questa parte , con i musulmani.

Dopo, quando i Serbi se ne sono andati e si sono fatti sotto i Croati, ad occupare la città, anche quando l'hanno tempestata di granate fino a spazzarne via il ponte che non cadeva da quattrocento anni, allora invece, lui non doveva più scegliere, perchè sapeva già da che parte stare ed è rimasto sotto le granate cristiane. Ma non aveva ancora diciotto anni.

S. è stato ferito due volte, S. ha visto più rivoltelle da giovane che quanto possiamo credere di averne viste noi nei film western. S., tuttora parla sempre della guerra perchè fa parte della sua adolescenza e della sua vita, e sembra che non se ne riesca veramente a liberare.

S. conosce le montagne qui intorno, il Velez e il Prenij, come fossero casa sua. Conosce le linee del fronte e dove si piazzavano le mine che ancora uccidono. S. dice sempre che i soldati migliori in guerra, erano i diciottenni come lui, perchè non hanno paura.

S., ancora oggi che ha 31 anni, non ha paura delle armi, e sfida a muso aperto un'ombra nella notte, aramata.

L'aria si è scaldata troppo, e forse solo l'esitazione di tutti, quel secondo di nera sorpresa che ci ha agguantato, mi ha dato il tempo sufficiente di acciuffare S. e portarlo via, mentre minacciava quell'ombra: “Ti vengo a cercare domani!”.

Io, al contrario, spero - e già quella sera speravo - di non rivederlo mai più.


Ok. Tutto sembra più disteso ora. Il gruppo cerca di gestire questi cinque minuti di pericolosa follia parlando, magari anche scherzandoci sopra, per aiutare a superare questo piccolo incidente. Parlo con S. Ho capito che nelle sue intenzioni c'era un principio di protezione verso di noi, per i suoi amici stranieri ospiti nella città, e stupidamente lo ringrazio come se il suo atteggiamento mi avesse fatto piacere.

S. dice solo: ”Nessuno può permettersi di toccare i miei amici.”

Non sono passati tre minuti da quanto è successo, solo il tempo di digerire quel guscio di noce in gola, quel nodo che si è annodato nel momento in cui tutti avevano capito che quell'uomo stava per estrarre una pistola - stavamo cercando di dimenticarlo – che sulla stessa strada gira improvvisamente una macchina. Noi, camminando sulla carreggiata, ci scansiamo dividendoci come il mar Rosso sui due marciapiedi per lasciare che l'automobile passi e ci superi, perchè tutti noi, tranne S. forse, speravamo che quella macchina che stava accelerando non volesse veramente fermarsi davanti a noi.

Io l'ho pensato, e, vi giuro, l'ho sperato che non si fermasse. Invano.


La macchina punta i fari e accellera , poi mentre frena -e l'auto non si è ancora fermata - si apre la portiera del passeggiero, e ne esce l'ombra rasata con il pugno già carico. Io sono sull'altro lato della strada e le mie pupille automaticamente si lanciano su S.

Eccolo S.. E' tornato ad essere la bestia aggressiva di prima. Assume lo sguardo di un lupo e stringe i denti mentre incita il suo avversario “Aide, aide!” - “Fatti sotto!”

Cominciano le danze.

In quella frazione di secondo sono riuscito a pensare solo una cosa: “S. è da solo e io non mi tiro indietro.”

Nella mischia. Mi lancio su quell'ombra, ma mentre gli sono addosso, la macchina accellera come per colpirmi, mi volto e piazzo entrambe le mani sulla vettura cercando di guardare dentro, pronto a saltargli sul cofano se avesse ripreso la sua corsa. Stranamente la macchina, dopo qualche secondo d'esitazione, non procede, ne esce un tizio ubriaco e dai denti marci , che si dirige verso Caterina che, sempre più scossa, riesce solo a chiedere, per carità!, che tutto questo circo si fermi.

Lo sbronzo uscito dalla macchina, si avvicina a lei  e allora anche io mi avvicino pronto anche a colpire.

(Stupido come sono, però non sono mai disposto a colpire per primo. Ma forse è stato bene così)

Lo sbronzo è sbronzo, ovviamente, ma capisce che c'è qualcosa che non va. Vedendo una donna, una donna straniera, si placa, tenta di parlare con me in bosanski, e io non lo capisco ma ho capito che le sue intenzioni non sono bellicose, soprattutto nei riguardi di Caterina. Dietro di noi, ancora la tempesta.

Allora torno a voltarmi alla rissa, afferro l'ombra e la spingo il più possibile lontano da noi, ma quella torna all'attacco e S. gli molla un dritto che lo stende al tappeto sanguinante.

L'ombra si rialza e sale in macchina, S.deve avergli fatto male, poi mi giro ancora.

S. sta parlando bosanski con l'ubriacone che era al volante, tutto sembra incredibilmente finito in un lampo come era iniziato, l'ombra insanguinata sta richiamando il suo amico suonando all'impazzata il clackson della macchina. .

Il circo è finito, ma S. sta perdendo abbondante sangue dal naso.

Caterina sta bene, io, per grazia divina, sto bene.

Il norvegese e il bosniaco che vive in Norvegia non hanno mosso un dito, tremavano dalla paura, ma almeno hanno accompagnato a casa Caterina.

Io non potevo lasciare S. da solo e lo accompagno in ospedale, dove lo curano. Niente di grave.

La strada per tornare a casa, è tutto uno svicolare tra vie nascoste e tortuose per evitare che quelli tornino a prenderci con gli amici.

Poi S. incontra due energumeni amici suoi che ci scortano quasi fin sotto casa, dove ci aspetta Caterina, distrutta dalla preoccupazione e sediamo al tavolo della nostra cucina.

S. prova a minimizzare: “non è successo niente, non mi sono fatto neanche tanto male”.

Poi mi dice, nel suo italiano arrugginito :”Anche nelle disgrazie ci sono cose buone: io e Paolo, da oggi, siamo veri amici perchè abbiamo combattuto insieme.... guarda quel mio amico... andavamo a scuola insieme prima che lui partisse per la Norvegia e lui non ha mosso un dito...”

Io mi sentivo dentro a un fumetto di Tex Willer. Non che non capissi cosa voleva dirmi, ma stasera abbiamo tutti rischiato di farci davvero male, solo per una stronzata.

“S., ma cosa avresti fatto se avesse tirato fuori una rivoltella?”.  Alza le spalle.

Sfodero la mia espressione più triste e per la prima volta stiamo tutti e tre al tavolo in silenzio con la sensazione di avere in casa un estraneo.

Poi esce e salutandomi mi dice : “io spero lui non ricorda tua faccia.”

Era meglio se non me lo diceva.


Da allora, io e S., siamo veri amici.

Ma allora, come cavolo è successo che da quel giorno ho paura di lui ?

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Mostar 2007

(accendi le casse e clicca!)
 
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JUGORT

brutto ma breve manuale per ignoranti sui balcani. 
Scritto da uno che ne sa meno di voi.”




Prova a pensare ad un colore, il blu.


Ora pensa le stelle, gialle.


Lo sfondo è blu e le stelle sono gialle, e tutto intorno c'è una bandiera. Che cos'è?

No.

Non è l'Europa, è la Bosnia-Erzegovina, e non ha niente a che fare con l'Europa. Se pensi che la Bosnia sia Europa, non hai capito nulla, come me.

Già. La Bosnia ha sbagliato continente, e poi ha sbagliato bandiera, per farvi credere, bugiarda, di essere là dove non c'è: al di là dell'orizzonte della riviera adriatica.



Dedico le parole che seguiranno alla gente semplice come me, a chi riconosce così tardi lo smarrimento davanti all'esplosione dei balcani.

Non è questione di ignoranza, o di insensibilità. Non avevamo il tempo di stare a sentire tutte le storie di pazzia e violenza del mondo. C'è la Palestina e c'è il Darfur, la Cecenia e l'Afghanistan, c'è l'Iraq e c'è l'America. Avevamo e abbiamo tuttora di che distrarci e di che piangere per le sorti del mondo.

Ma avevamo anche le nostre vite e i nostri problemi, gli affetti, gli amici e i figli di cui occuparci e avevamo da fare per garantire e proteggere il nostro universo personale.

E' sacrosanto.

Consolatevi della vostra ignoranza pensando alla mia.

Cosa potevo saperne io, che avevo quattordici anni all'epoca?

Niente. Non capivo niente, perchè ancora non governavo nemmeno gli ormoni, e ho continuato a non capirci niente per un sacco di tempo.

E, in franchezza, soprattutto dei miei ormoni.


Ma capita che la vita ti prenda, in un secondo di confusione, e che ti sbatta a Mostar, nel cuore dell'Erzegovina, assolutamente per caso, senza che tu ne abbia coscienza, e che ti affoghi nel marasma balcanico, giorno dopo giorno, a respirare l'aria impestata dei morti di quasi quindici anni prima, quando è iniziato tutto, quando il primo fratello ha alzato le mani sul secondo, e la Jugoslavia si è smembrata amputandosi pezzo per pezzo negli anni, sacrificando vite, famiglie, amicizie ed amori.

Allora, a questo punto, che non sia la curiosità per gli Slavi del Sud, ma la curiostà per il mio raccontare, per le parole di uno come voi, che vi catturi l'attenzione verso ciò che è successo e continua a succedere qui.

Senza pretese di raccontare come sono andate veramente le cose, voglio parlare di quel poco che so di questo posto e di cosa potrà succedere ancora, visto che ancora non è finita.



Malinconoia e Titonostalgia

Tutto ha avuto inizio con Lui. Josip Broz Tito, il Compagno Tito. Il partigiano Tito. Colui che ha raccolto tutti i popoli slavi del sud (Jug = Sud) nel palmo della sua mano, contro l'occupazione straniera, e le altre correnti interne, sbaragliando le scacchiere croate filonaziste “Ustascia”, e i “Cetnici” Serbi dalle 4S cirilliche (“CCCC”:Samo Sloga Srbina Spasava), e subito dopo, genio del male, si è inventato “la terza via”, il regime comunista più opportunista della storia, alla faccia di Marx ed Engels : “Nè con gli Usa, né con l'URSS”, ma debiti e accordi segreti con tutti e due.

Gran figlio di buona donna, questo Tito.... ma la gente....ma cosa gliene poteva fregare ...... tutto sommato, erano felici. In Jugoslavia si lavorava poco, si mangiava tanto, tutti girovagavano liberi per l'Europa e in casa c'era pace da 50 anni.


Disgregazione.

Sia chiaro che da queste parti non sono mai stati “un solo popolo”, o almeno questa prendetela solo come convinzione personale, in barba ai piagnistei bugiardi che si sentono ancora da queste parti.

Macchè. Erano tutti divesi.... ma, allo stesso tempo, anche tutti uguali.

Tre religioni diverse, sei nazioni, e forse altrettante etnie, certo.

C'erano e ci sono i cattolici (sloveni e croati), i cristiano ortodossi (serbi, montenegrini e qualche macedone), e i musulmani ( bosgnacchi, kosovari).

Ma ricordiamoci anche che qui lo stato è laico, e che la religione quindici anni fa era anche meno importante di quanto lo fosse da noi, e lo dimostra quanto grappa consumino i musulmani di queste parti.

C'erano sei repubbliche federate, la Serbia (la più grande e autoritaria), il Montenegro e la macedonia (i terroni), la Croazia e la Slovenia (i polentoni ricchi e secessionisti) e poi la Bosnia Erzegovina (il cocktail etnico per eccellenza, una sorta di Caipiroska a base di cattolici croati, serbi ortodossi e bosgnacchi musulmani).

Insomma c'è sempre stato un gran macello nel circondario. Lo scisma d'oriente, le occupazioni turche musulmane, gli austrungarici cattolici e così via, hanno lasciato tracce ben visibili in questa zona di confine tra oriente e occidente. Certo, tanti tratti caratteristici diversi, tante religioni, tanti popoli, ma un solo Tito, ricordiamocelo.

Sotto la sua effige, la Jugoslavia aveva una sola bandiera e i particolarismi venivano spazzati via, non tanto dal regime in sè, quanto dalla personalità di un vero e indiscutibile leader.

Tito non rappresentava la Jugoslavia. Tito ERA la Jugoslavia.


Sarà che erano altri tempi.... ma che fine han fatto i semidei che esistevano una volta?


Ma quando i semidei muoiono, gli uomini peggiori, che sono vissuti nell'ombra aspettando, il momento opportuno, come iene e avvoltoi, si avventano sulle carcasse e si contendono i brandelli di questo corpo morente.

Non importa che la carcassa fosse la Jugoslavia, non importa che fosse il loro Paese e la loro gente.

E' fame atavica che li divora, e cannibalismo.


Ora non aspettatevi che questo “pezzo” sia un resoconto esauriente della intera vicenda. Quello che vi racconto non è nemmeno tutto quello che so, e io ne so veramente poco. Ciò che scrivo non sarà altro che un riassunto per sommi capi, per inquadrare una vicenda che non ci hanno mai raccontato bene, che all'epoca confondeva gli stessi giornalisti, e persino la gente di qui, che alla fine non sapeva più di chi fidarsi.

Esistono oggi molti libri, audiovisivi e documenti che spiegano cosa è accaduto, non pensiate di saperne qualcosa dopo aver letto queste poche righe. Se vorrete, potete documentarvi ben meglio da soli, da qualche altra parte.

Io vi posso solo raccontare la partita in poche parole dicendo chi ha voluto prendere la palla, e spiegarvi perchè questo match non è ancora finito.


Torniamo indietro, al 1980. Dopo la morte di Tito, si scoprirono le magagne di una gestione forse fin troppo irresponsabile del Paese. Debiti esteri stellari, situazione economica disastrosa, vuoto politico difficilmente colmabile: gli ingredienti esplosivi che detonarono la polveriera balcanica.


Mettiamo in chiaro qualche nome importante, prima di cominciare.

In Serbia c'era il tristemente noto Milosevic, i serbi sono cristiano-ortodossi e tradizionalmente filorussi.

In Croazia c'era il nazionalista Tudjman, e i croati sono cattolici e di norma, almeno adesso, parecchio nazionalisti. La scacchiera bianco-rossa che ostentano è in realtà un simbolo Ustascia (letteralmente “gli alzati”, i nazisti croati), e , come se non bastasse, a Zagabria si erano convinti che Dio è un loro connazionale (ma vaff...!...non era palestinese?).

Ma veniamo al bello.

In Bosnia Erzegovina c'era Izetbegovic, presidente (musulmano) della repubblica di Bosnia. In Bosnia, appunto, c'era e c'è di tutto: bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi.

Fin d'ora, si intuiscono già i motivi che hanno portato questo quadrato di terra ad essere il campo di battaglia preferito, la vera vittima sacrificale dell'inferno balcanico.


Ora, veniamo alle azioni di gioco.

Dopo anni di crisi economica, che cosa pensiate che possa succedere in un Paese misto come quello della Jugo post Tito?

Quello che probabilmente succederebbe se l'Italia attraversasse una crisi economica tale da gettare in scompiglio il Paese intero, credo. Che cosa?

Che i padani lavoratori chiederebbero a gran voce la secessione , non credete? E figuriamoci gli alto-atesini...! ...Se si deve tirare la cinghia, non c'è più nessuno che vuole lavorare per sfamare il vicino, né la macchina burocratica dello Stato. Sbaglio?

E in Jugoslavia è successo esattamente questo: le repubbliche ricche e produttive del Nord hanno dichiarato l'indipendenza dalla Jugoslavia, a cominciare dalla neoeuropea Slovenia.

Ah perdinci!

E cosa dovrebbe fare uno Stato centrale per evitare lo smembramento del suo territorio?

Manda l'esercito contro i cospiratori, mi pare ovvio.


La Macelleria fa affari d'oro

Questo è l'inizio della guerra. 1991.

In slovenia parte un conflitto che causa poche decine di morti,dopodichè la Jugoslavia accetta lo status quo di una repbblica secessionista protetta dal veloce riconoscimento di molti giganti europei.


Il virus indipendentista è in circolo in jugoslavia, e il morbo si diffonde subito in Croazia.

Ma chi è alla guida dei carri armati dell'Jna, l'esercito nazionale jugoslavo?

E' il serbo Slobodan Milosevic, da Belgrado, che in quel momento ha la presidenza dell'intera jugoslavia e quindi anche dell'esercito, tradizionalmente da sempre in mano ai serbi.


Ora prima di proseguire, ci sarebbe molto da dire sulla storia e sulla geografia di questi posti, ma non è questa la sede. Ci sarebbe da spiegare che cosa sono le krajine, che cos'è Kosovo Polje, parlare dei primi incidenti e via dicendo. Sono tutte cose che non ho il tempo di raccontarvi, ma che vi farebbero capire come mai qui tutto è collegato da un filo invisibile, e perchè alzare un dito su un serbo in kosovo potrebbe significare fare una guerra in Bosnia e Croazia.

Qui sono tutti diversi ma sono tutti mischiati, come se ognuno si portasse dietro un filo collegato con la sua città d'origine e si muovesse a zonzo per i balcani ingarbugliando sempre di più un gomitolo di esseri umani, che si sposta e si divincola in una matassa fibrosa che si insaguinerà presto.


Ma eravamo al punto in cui il cancro indipendentista si allarga e coinvolge la Croazia spingendola a dichiararsi anch'essa indipendente... e allora no! fare finta di nulla per la povera Jugoslavia, orfana delle locomotive economiche, ormai non è più possibile!

In Croazia, poi, ci vivono anche i serbi, perchè qui, a causa della Storia, le persone nei secoli hanno viaggiato e si sono trasferite, e questo, insieme alla cospirazione secessionista, rappresenta per Milosevic tutte le premesse, ma soprattutto i “pretesti” per far scoppiare davvero la guerra civile.

Io, a questo punto ho un sussulto legato a un ricordo personale. Mi ricordo di mia nonna , che ha visto tutte e due le guerre mondiali, e che raccontava che la guerra è una brutta cosa....ma che non esiste nulla di peggio di una guerra civile. Ora - devo dire- da qui, lo comprendo meglio, e le do ragione.

Scoppia dunque ufficialmente la guerra “civile”, perchè se i serbi hanno l'JNA, la Croazia è ricca, ed un vero esercito lo aveva già preparato in previsione di questo momento.

Ho usato una parola, poco fa, intenzionalmente, perchè molto significativa: “pretesto”.

Quella che sto ripercorrendo e che sembra svolgersi sottesa dalle mie parole sembra assumere i toni di una guerra indipendentista fondamentalmente voluta dalla popolazione, e in qualche modo resa necessaria dalle spinte separatiste di popoli ed etnie fondamentalmente ostili fra loro.

No, non è così, chiariamo questo punto.

Qui non parliamo di moti risorgimentali, qui stiamo parlando di manovre politiche, che sono passate quasi sempre sopra la testa della gente, che in 45 anni di convivenza si era felicemente creata inconsapevolmente un girotondo di amicizie interetniche e tantissimi matrimoni misti, che sono stati spezzati via dalla guerra . Qui stiamo parlando di un imbroglio dato a tutti i figli della jugoslavia di Tito, bagnato del loro stesso sangue che alimentava la macchina bellica, arricchendo coloro che decidevano il destino delle ex repubbliche federate di Jugoslavia.

Certo, in molti, in troppi irresponsabilmente si sono sentiti chiamati alle armi, alzando le mani sui propri fratelli. Non si giustificano certi errori, non facciamo finta che nessuno di loro sapesse cosa stava accadendo e cosa stava facendo.



Qui si sono inventati una parola , la “Titonostalgia” per piangere ciò che avevano prima della guerra.

Pensate alla loro lingua.

Qui, dicono , parlano tutti lingue diverse, per poche parole differenti tra serbi, croati e musulmani, per qualche arcaichismo inserito ad arte appositamente in chiave nazionalistica per creare le differenze tra gli uni e gli altri.

Non sono processi storici naturali, è questo che voglio dire. Ciò che poteva succedere nei secoli, qui sta succedendo nel giro di pochi anni, perchè hanno drogato i loro popoli, perchè hanno fatto in modo di fare sembrare “naturale” il delirio dovuto a ciò che invece è stato iniettato “artificialmente”.

La battaglia tra due giganti come Croazia e Serbia, tra due cannibali come Milosevic e Tudjman , aveva lo scopo nemmeno tanto nascosto, di allargare la guerra, la più sporca possibile, in Bosnia.

Tutto è stato manovrato dall'alto, e i poveri figli di Tito, ci sono cascati con tutte le scarpe.


Gli incontri , segreti e non, che ci sono stati tra il presidente serbo e quello croato, nascondevano oltre ad un piano di spartizione della Bosnia, incastrata fra i due colossi , la volontà di espansione del conflitto per l'allargamento dei danarosi traffici di guerra. La Jugoslavia non esisteva più, c'era rimasto solo da far razzia.

In quest'ottica hanno lasciato partire, sotto l'occhio impassibile dell'Europa e dell'ONU -disgregati e debolissimi- un climax di violenze che ha portato la Bosnia in particolare ad essere la Terra di nessuno, una zona del mondo in cui vigeva l'anarchia, o meglio, la legge della giungla, dove le bande armate depredavano questo o quell'altro villaggio, quasi ad assomigliare all'immaginario mondo postatomico di un Ken Shiro slavo.

Erano gli anni 90, all'orizzonte della Riviera Adriatica.


Insomma, nel bailamme della guerra serbo-croata, alla luce della disgregazione de facto della jugoslavia, Izetbegovic, spinto dalla comunità internazionale, il 9 gennaio del 1992 dichiara l'indipendenza della Bosnia e allora -come vi ho già anticipato- cominciano veramente i casini da queste parti.

Abbiamo detto che la Bosnia era un mix di culture e popoli, una caipiroska etnica.

Ora, provate voi a separare dalla Caipiroska il succo di limone dalla vodka e dalla fragola.

Qui in Bosnia, Milosevic ha lasciato questo compito difficile ai suoi uomini, ordinando alle loro truppe di occupare militarmente la Bosnia e, in particolare, ha lasciato il mandato a due criminali d guerra tuttora liberi e tristemente famosi: Karadzic e Mladic.

1992. In seno alla Bosnia avanza l'esercito del generale Mladic e viene creata la Repubblica Srpska (serba) di Bosnia al cui capo viene nominato Karadzic. Allo stesso tempo i cattolicissimi croati bosniaci si industriano per creare nella bosnia controllata dai carri armati croati, la Repubblica di Herceg-Bosna di Mate Boban, leader dei croati bosniaci. I musulmani, schiacciati tra i due, sarannno le maggiori vittime di questo Risiko criminale.

Insomma , quello che è successo da queste parti è stato disgregare ciò che era integrato, attraverso la violenza delle bande armate, attraverso l'istituzione della “pulizia etnica” in un posto in cui gli “etnicamente puri” sono in proporzione ai milanesi autentici a Milano, per intenderci.

E Milano, inutile dirlo, è piena di terroni (con rispetto parlando).


Insomma in Bosnia , le armi circolano per il piacere dei trafficanti e degli uomini potenti, chiunque abbia degli amici che preferiscono razziare piuttosto che fare da bersaglio si può creare un bella compagnia paramilitare e fare un bel po di affari, stupri e tutte le altre peggio schifezze umanamente immaginabili.

La guerra , del resto, oltre a sfogare istinti bestiali, ti può far fare il salto sociale che da semplice operaio o impiegato in tempo di pace non avresti mai potuto fare... E così, il salto dalla normalità alla pazzia è si è realizzato nella testa delle persone, dall'oggi al domani, in così breve tempo, e non certo per cause naturali. Sono state le condizioni imposte da chi ci guadagnava che hanno esatto un'alterazione genetica dei figli di Tito, che da Jugoslavi si sono trasformati in “lupi” croati, “tigri” e “aquile” serbe, “berretti” musulmani .... insomma , di tutto ma NON uomini.

E se non erano più uomini potevano dunque non comportarsi più come tali, rinchiudere la coscienza dentro una scatola e seppellirla, per tutto il tempo della guerra e aprire campi di concentramento dove torturare, fosse comuni dove seppellire i morti, ma anche i vivi che non hanno più le forze e le gambe per scappare.


Poi, dopo soltanto quattro anni di inferno sulla terra, Mr. President Clinton e l'amministrazione americana hanno pensato di intervenire promuovendo gli accordi di Dayton che hanno sancito la vittoria di Milosevic e Tudjman: la spartizione di fatto della Bosnia era avvenuta.


I lupi, le tigri, i berretti e tutti i pazzi di questa guerra, potevano finalmente disseppellire quella scatola e tornare ad indossare una coscienza, tornare ad essere degli uomini normali, operai, impiegati, disoccupati, politici.


La Bosnia oggi è figlia di questa storia, un aborto di uno Stato vero.

La Bosnia oggi, per chi non lo sa, è separata a metà, da un lato i serbi di Bosnia, dall'altro una federazione delle due componenti, croata e musulmana.

Il cocktail è stato separato nei suoi ingredienti fondamentali: il miracolo della termodinamica umana è riuscito. Ci sono voluti circa centomila morti, quattro milioni di traumatizzati, un milione di ordigni tuttora inesplosi sul territorio e un numero indefinito di armi ancora in circolazione.



Guerra e Pace.

E anche tutte le sfumature nel mezzo....


Questa storia non la possono dimenticare qui, e le conseguenze , in termini di disgregazione sociale , sono ben evidenti qui a Mostar, nel cuore dell'Erzegovina, dove vivo.

Qui tre eserciti si sono scontrati casa contro casa, balcone contro balcone, e pure cesso contro cesso, incuranti del fatto che prima o poi avrebbero dovuto tornare a vivere insieme.

Il ponte, recentemente, è stato ricostruito, i cittadini no.


Ma perchè, ora che sono passati 15 anni dall'inizio della guerre di disgregazione della ex jugoslavia, ho detto che ancora non è finita?

Forse, solo perchè gli accordi di Dayton non hanno sancito nessuna fine, ma solo le premesse per un nuovo inizio. Dividere la Bosnia in due, anzi tre!, entità nemiche, Repubblica Srpska e Federazione Croato- Musulmana, che si minacciano tuttora,e che sono ben lontane dal volersi mischiare come aveva saputo imporre Tito, equivale in effetti a chiudere lo sfiatatoio di una pentola a pressione e alzare al massimo la fiamma sotto al fornello.

I serbi di Bosnia sono secessionisti e richiamano la grande madre Serbia, i croati di Bosnia parlano di “diaspora”, i musulmani, come al solito, stanno in mezzo, e qualcuno giura di aver già visto qualche mujhaiddin a pregare tra le mura delle moschee... anche se qui, in tanti, troppi, hanno le traveggole.

In Bosnia gli studenti studiano, a seconda della appartenenza, tre storie differenti, tutte ugualmente faziose e tutte mirate a divergere le etnie che però sono costrette a convivere fisicamente. I cittadini hanno diversi diritti a seconda che siano croati, musulmani o serbi.

Recentemente in Bosnia, dopo quello che hanno già passato e che stanno ancora passando, sono incomprensibilmente tornati a parlare di guerra, come se questa fosse una soluzione.

Qui , insomma, si impara che la pace non è affatto l'assenza di guerra.

Ovunque in Jugoslavia, ormai, si respira nazionalismo e intransigenza. Il machismo balcanico premia l'uomo forte e conservatore, e la politica rimane in mano agli avvoltoi della guerra.


Ma non si finisce mai?

(Ke Kosovo vuoi ?)

La risposta a questa domanda è semplice e diretta. No.

Avremo forse modo di parlare più avanti di Kosovo, di perchè centra con tutto questo, di UCK, di guerriglieri e droga, e magari spiegheremo anche perchè l'indipendenza (soltanto due milioni tra pastori e trafficanti) che dovrebbe arrivare a momenti -forse ne avrete letto qualche riga sui giornali-, rischia di innnescare nuovamente la bomba della ex Jugoslavia e in Bosnia in particolare.

La deriva dei continenti si realizza in piccolo, e non solo nella Ex Jugo, ma anche all'interno della stessa Madre Serbia. La provincia autonoma chiede, dopo i conflitti del 98, dopo gli accordi di Rambouillet e tutte le promesse americane, di diventare uno Stato autonomo, e ha già preparato inno e bandiera. Solo quello però, visto che se dal Kosovo se ne parte l'ONU , quelli non hanno più un quattrino, ma tant'è..... hanno pur sempre una buona scorta di droghe, per distrarsi.

Il Kosovo, la provincia della Serbia meridionale popolata al 90% da musulmani di etnia albanese, se ne va, e i serbi di Bosnia si stringono alla Madre.

I mesi presenti e passati, da queste parti, sono stati tutti un girotondo di interventi al vetriolo, di ricatti politici, di elezioni fin troppo tese.

La Serbia deve scegliere se accettare l'indipendenza kosovara sponsorizzata dagli americani e iniziare il cammino per entrare in Europa, scontentando i nostalgici, oppure se migrare in Russia dal vecchio Vlad ( intendevo Putin, scusate il berlusconismo) che sostiene l'unità della Serbia.

Le imminenti elezioni per la presidenza serba, comunque vadano, testimoniano il rifiuto intransigente dei serbi a subire condizionamenti esterni su questi temi. Nel contempo, le conseguenze di questa vicenda daranno sicuramente una buona opportunità alle tre entità bosniache di litigare, chiedere secessioni e annessioni alle rispettive Mamma Serbia e Mamma Croazia.

Mi vien da pensare solo “povera Bosnia”.

Ma voi lo immaginate uno Stato in cui i vari concittadini hanno diritti diversi a seconda di una pseudonazionalità presunta ? Ve lo immaginate un Paese in cui gli abitanti votano alle elezioni per una nazione diversa? Ve la immaginate uno Stato in cui la popolazione aspetta con ansia la disgregazione del proprio territorio? Ve lo immaginate?

No? Suvvia vi aiuto io: Provate a pensare a un colore : il blu. Poi pensate alle stelle, gialle.

Lo sfondo è blu e le stelle sono gialle, e tutto intorno c'è una bandiera.



Slobodna interpretacjia

(libera interpretazione)


Quello che deve risaltare in tutta questa trama complicata è la bugia che stava dietro a questa guerra.

Questo conflitto è nato come conflitto separatista, eppure la realtà delle cose era ben diversa. Che sia chiaro che in ex Jugoslavia non c'è modo di tirare troppo da una parte senza che le conseguenze non si ripercuotano anche nel punto diametralmente opposto, come una matassa di spaghetti scotti. Che sia chiaro che tutto questo pasticcio per separare ciò che prima era diverso, ma unito!, ha intrecciato ancor di più i destini dei popoli degli slavi del Sud che ormai sono sugellati per sempre dal sangue rappreso in una sola “questione balcanica”.

Questa separazione ha dato ragione ancora una volta, seppur in maniera drammatica al compagno Tito: sei Repubbliche, cinque popoli, quattro lingue, tre religioni, 2 alfabeti e 1 solo Tito, ovvero una sola Jugoslavia. Insomma, come a dire che non si può mai smettere di essere fratelli.

Nemmeno a costo di ammazzarli tutti.

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Climbing the bridge!
PUT YUR SPEAKERS ON AND CICK IT!
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M  o  s  t  a  r  M  E  M  O

 
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"Respiro, là Sotto.


Sotto alle macerie e ai calcinacci.

Dentro le case senza più i tetti,
dove germogliano gli alberi.

Tutt'intorno agli anelli dei proiettili
che adornano i muri.

Nella polvere e tra i vetri rotti,

come nelle cicatrici della gente.


Sembrava - pensàvano -
 

che volassi via con le schegge delle granate

o con gli spruzzi verdi e marroni del fiume.

Parevo sgretolarmi come l'intonaco
 

e sparire nei soffi della Bura.



Ho custodito la mia identità nei sassi della valle

per tutto il tempo

in cui sono stata distrutta,

per tutto il tempo

in cui hanno cercato di portarmi via.




Non vi appartengono più

e mai vi sono appartenuti
- nemmeno se lo credevate -

i palazzi signorili e le rovine di oggi,

i resti di una civiltà passata
che vi ostinate a non ricordare.

Non vi appartengono più,

i figli che vi crescono dentro le mie strade,
i muri ricostruiti,
le nuove atmosfere medievali
o i viandanti da cartolina.





Purtroppo per voi, però, respiro ancora.



Non ero vostra e non lo potrà mai più essere

perchè mi avete violata.



Vivo, malconcia,

portando la memoria di quello che ero e di quello che sono

solo per farvi dispetto nell'alzare ancora gli occhi
e sfidare chi mi voleva annientata.




Capiranno anche loro
che il tempo ha il suo discrimine



e che ogni mio giorno in più di vita

è, per loro, uno in meno."



Adamatrice

#
Sretan Put
Viaggio nella terra dei lupi


 
C'è una cosa che mi ha colpito di tutti questi mesi di Bosnia, o meglio, di Erzegovina: il fascino dei luoghi carismatici, lo spirito che nutre l'immaginazione, la magia di una cultura che si respira ad ogni passo....che manca a questo posto.

Come la poesia che si alterna alla prosa: si sappia che la Bosnia è prosaica.

Viaggiando per la Bosnia puoi trovare lande sconfinate di natura selvaggia, colline e rocciose montagne. Ma le belle alpi dinariche proteggono tra i loro paesaggi i fantasmi che da generazioni abitano questi luoghi. Gli insediamenti umani in Bosnia ed Erzegovina suscitano altrettanto desolanti sensazioni: al di fuori delle ammalianti starigrad di Mostar e Sarajevo, i centri abitati della zona portano ben visibili sia le tracce dell'agghiacciante architettura socialista, quanto le cicatrici e le rovine dell'ultimo conflitto, piuttosto che le recenti ricostruzioni non finite, con i mattoni delle mura esterne ancora a vista .

Dobrodosli”: benvenuti nei balcani della Bosnia-Erzegovina.

Le Città Fantasma

Arrrivando dall'Italia si potrebbe entrare nel paese da Nord, nelle vicinanze di Bihac, attraversando la doppia frontiera di Croazia e Bosnia. Siamo nelle Kraijne, letteralmente, le “zone di confine”, a cavallo tra Bosnia e Croazia, ovvero anche tra Federazione e Repubblica Srpska, qui dove sono cominciati i massacri per il controllo di un territorio scarsamente popolato da contadini e pastori. Ancora oggi, attraversando queste lande, ci si chiede come possano essersi scannati per distese quasi deserte dove non c'è rimasto più nulla al di fuori dei cadaveri di poche vecchie case arse dai roghi.

E' inutile negarlo: nascosto tra le carte e le mappe di un viaggiatore si insinua sempre la speranza malcelata di arrivare in un posto in cui l'anima indugi davanti all'esotismo di una bellezza nuova, intrigante. Quando entri in Bosnia, però, l'anima indugia sulla trascuratezza, sui sacchetti di plastica che danzano ai bordi delle strade.
I balkani -in realtà- sono ricoperti di prati, bellissimi prati che rimarranno vergini e incontaminati per un sacco di altro tempo: tanti bellissimi prati con tante bellissime mine come fossero margherite.

Prati e Mine, che qui vanno accoppiati come il pane e il cioccolato. Prati, boschi, mine e tanta tanta acqua. Cascate e fiumi impetuosi che si insinuano in amplissimi tappeti verdi e nelle foreste.
Del resto, scollinando e scollinando, tra un prato e l'altro, puoi trovare lungo le strade i cartelli che riportano i nomi dei tanti villaggi. A dire la verità, quasi sempre riesci a trovare solo dei nomi e una domanda che si ripete costante nella tua testa ad ogni insegna :”ma dove diavolo sta il villaggio?”, come se ci fosse un cartello che in realtà sta a indicare solo se stesso. Di norma, invece, il cartello indica quattro case lungo la strada, spesso nuove, grandi, ma non articolate come le nostre cascine: non ville ma nemeno casette. Sono villette tristi, spesso non finite, magari riedificate a fianco delle vecchie catapecchie bruciate durante la guerra che ancora portano i segni e il ricordo di una fuga improvvisa, del disegno sistematico di deportazione operata attraverso il fuoco. Forse, i signori della guerra volevano che fosse una “cauterizzazione”, la cicatrice di un crimine premeditato per scacciare gli abitanti ed usurpare territori.

A guardarli distrattamente, questi villaggi non ti colpiscono per nulla, quasi non li noti nemmeno.
Per capirci qualcosa di Bosnia, per qualsiasi maledetta cosa, per qualunque aspetto della sua cultura popolare - prima di abbandonarsi alla confidenza delle proprie opinioni a riguardo - bisogna farci il callo, è proprio il caso di dirlo: battere e ribattere dolorosamente finche non ti si sveli l'evidenza come pelle indurita sulle mani.

A parte Sarajevo, che sta alla Bosnia almeno quanto potrebbe stare Parigi alla Francia (se non di più), tutto - città, paesi, villaggi - hanno, al di fuori delle macerie ancora in vista, un aspetto di consueta, noiosa ma sospetta “normalità”, nel senso che non c'è nulla di inaspettato che ti colpisca. Sappiamo tutti che qui c'è stata una guerra e sappiamo quanto sia stata cruenta, ma anche che ora è finita da 13 anni: qui, come in tutto il paese, si sente che nell'aria soffia però un segreto che conoscono tutti ma che non ti vuole dire nessuno.

Se ti fermi a guardarli, vedrai che qui sono fisicamente bianchi ed europei sia per tradizione che per cultura. Insomma, alla fine, potremmo anche essere noi. Ma cosa c'è di strano, allora, di “nascosto” in mezzo a queste case, in questi villaggi? Che cosa c'è di sfuggente, che si appiccica addosso e che tiene occupata la mente? Perchè un villaggio disperso in un bosco a lato del ruscello non ispira alcun idillio?

Quello scrittore aveva ragione a dire che i luoghi hanno una personalità.

Tante volte mi sono chiesto se la spettralità della Bosnia piu autentica fosse una suggestione donata dalle mie conoscenze di storia recente e mi sono risposto che , in fondo, no, non è così. Non è solo questo. Ho pensato, discusso e indagato a lungo per svelarmi il mistero della anormalità di questi villaggi che non esistono.
Dove manca il sentimento di “comunità”, manca sempre anche il luogo fisico della “Comunità”, e così è in questa terra. Perciò tante case vicine non creano un villaggio, ma soltanto un gruppo di case. Nei nuovi villaggi della Bosnia - ma anche nei vecchi - non esistono luoghi del vivere comune - piazze, sagrati o giardini - e non vi si crea di conseguenza nemmeno la Società che dovrebbe abitare quei villaggi.
O forse, la realtà è al contrario, invertendo causa ed effetto: non esistendo la “Comunità”, non c'è nessun bisogno di creare spazi dove questa possa nutrirsi: del resto questi non sono villaggi, sono il più delle volte “insediamenti” nati per colonizzare i territori usurpati con un'altra “etnia”.


Viaggiare a UFO:
SRPSKA


Partendo da Bihac, entriamo nella Repubblica Srpska (R.S.) giungendo a Banja Luka, la capitale dell'entità Serba della Bosnia i Herzegovina (BiH) per proseguire verso Sud, interscando talvolta i territori della Federazione Croato-Musulmana.
Fa un certo effetto, lungo la strada, girare in moto per questi posti e sentire il peso dello sguardo della gente per la strada. Fa un certo effetto sentirsi le pupille addosso delle donne che ti guardano sotto il fazzoletto che raccoglie i capelli, le donne che hanno il doppio dei loro stessi anni, che interrompono il lavoro appoggiandosi contro la zappa per seguire per una frazione di secondo la moto dello straniero sfrecciare come fosse una nave aliena.
Fa un certo effetto, entrando in un paesino, sapere che tutti già ti conoscono, prima ancora che tu abbia avuto modo di parlare, sapere che le voci girano su di te, sapere di avere calamitato i loro sguardi addosso, in ogni momento, sempre e comunque.
I bambini ti circondano, i ragazzi vogliono parlare con te del calcio italiano, i vecchi invece ti fissano muti, ma non smettono di guardarti. Sento continuamente una strana pressione.

Arriviamo a Banja Luka: la città non rispecchia i canoni di desolazione del resto del paese ( a suo modo è desolante, ma più per il suo stesso anonimato che non per la trascuratezza e le cicatrici). Da qui la distruzione forse partiva, ma di sicuro non arrivava, protetta com'era dai carri armati dell'esercito Nazionale Jugoslavo. La città, attuale capitale della RS, è insignificante ma pulita, con i muri integri invece che trivellati dai proiettili. Si presenta senza le rovine, senza le case scoperchiate che sono invece patrimonio di qualsiasi altro villaggio non etnicamente omogeno e conteso del Paese: Banja Luka è un isola della Bosnia in cui, nei quattro anni di guerra, si poteva fare tranquillamente la spesa e continuare normalmente la propria vita. Se ci passate ora non avrete nulla di particolare da ammirare se non poche bancherelle che strabordano di retorica serba antiamericana dei cetnici che inneggiano ai loro criminali di guerra. E' meglio partire velocemente da questo posto e buttarsi nella verde campagna della RS, dove le bandiere serbe sventolano sulle rive rigogliose immerse nel panorama balcanico, verso sud alla volta di Srebrenica, magari allungando un po la strada e sostare a Tuzla e vedere tutto ciò che offre: il memoriale ai ragazzi uccisi in città all'ora dell'aperitivo.

Andiamo avanti e continuiamo a viaggiare nell'entroterra.

Qui ci trovi la Bosnia più autentica, che è la Bosnia dei piccoli villaggi sotto le colline e sopra i fiumi verdastri, nascosti dalla macchia boschiva, in cui fare il bagno d'estate. La Bosnia più autentica non è solo terra di campagna ma anche una giornata di pioggia e una strada circondata da verdissimi prati vuoti. E' forse addirittura una nebbia bassa che giace a un metro sopra il terreno, una nebbia che di notte sembra nascondere la minaccia di due occhi che si illuminano di traverso sulla strada. La Bosnia è allo stesso tempo anche il caldo soffocante dell'estate che non fa respirare.

Molto spesso, ancora, la Bosnia sono due occhi giovani che non riescono a brillare.


DESOLATION ROAD

La strada che da Bratunac porta a Srebrenica.

Lasciamo stare cosa è stato in passato, non è dell'orrore universalmente noto che voglio parlare. La morte -scusate la retorica – dopo che ha attraversato questo posto, non se n'è più andata. Il genocidio di Srebrenica: 8000 musulmani che sarebbero dovuti essere protetti dalle Nazioni Unite, uccisi in meno di tre giorni dall'esercito Serbo-Bosniaco del Generale Mladic è un ferita che non si può chiudere, per qualunque essere umano dotato di coscienza. La strada che da Bratunac porta a Srebrenica attraversa un chilometro di tombe disposte geometricamente ad un metro l'uno dall'altra al bordo delle strade. Poi, girando il collo, puoi vedere quel vecchio capannone abbandonato usato in quella occasione come macello di esseri umani, lì dove è successo tutto. L'aria ora è come un mantello pesante che ti schiaccia sotto il suo peso. E' quasi estate ma qui piove a dirotto, non me ne capacito.

A Srebrenica, oggi, non c'è nulla da vedere e non c'è nulla da fare al di fuori del “ricordare”. Srebrenica è un altro villaggio della Bosnia costituito da due strade che si allargano un attimo per contenere l'unica attrattiva illuminata della città: un centro commerciale con un fast food al suo interno in cui echeggia la musica della filodiffusione.

Guardo gli occhi della gente e non vedo un espressione. I ragazzi, quei pochi, forse sono addirittura abituati a vedere i turisti che si incuriosiscono e che attraversano i balkani per contemplare quella puzza di tragedia che non se ne va. Le luci dello Shopping Centre sono abbaglianti ed eccessive, stonando completamente con il buio del resto della città.

Ordino un'aranciata al bar e penso solo: ”Bevi, anche se non ne hai voglia, consuma più in fretta che puoi, pensa solo che sei fortunato a non essere nato qui e scappa via prima che lo stomaco non cada per quanto si sia fatto pesante. Scappa da Srebrenica!”


Balkan Renaissance

Se stai scappando da Srebrenica, anche Sarajevo a confronto potrebbe sembrarti un luogo sicuro.

S A - R A - J E - V O !

Sarajevo è la vita che manca al resto della Bosnia. Bar stracolmi, giovani, metropoli, vita , locali, tendenze, personalità. La capitale! La normale nostalgia Bosniaca a Sarajevo rimane solo uno sfondo visibile dalle colline dell'assedio dei 4 anni, e non parlo per metafore! In questa città è facile distrarsi passeggiando nei mille bar e nelle strade originali di questa piccola metropoli che mischia socialismo e architettura ottomana, graffiti Naive e palazzoni dal sapore Retrò degli anni passati.

Sarajevo non è stata smontata pezzo per pezzo durante la guerra, lo stillicidio è stato mirato e ineluttabile con le telecamere del mondo che si concentravano proprio lì, al centro della Bosnia, quella amata dagli intellettuali di tutti i paesi pronti a versare lacrime per quello scempio.
Ora gli stranieri, i turisti e i giovani hanno raccolto i resti della loro identità culturale e ritornano a vivere, incontrarsi e creare spazi, reti e cultura nonostante il fardello della guerra..

Sarajevo è ancora viva, come il resto della Bosnia non può nemmeno immaginare.

La cultura di sarajevo, il cinema di Sarajevo, la Musica di sarajevo, le ragazze di Sarajevo e anche i Cevapi di Sarajevo.... non ce ne sono di uguali in tutto il resto della Bosnia.

Viva Sarajevo! Sarajevo è viva!

Ma se vi inerpiacate sulle dolci colline che circondano la città, ricoperte da piccole villette e alberi e guardate in basso, vi si svelerà il panorama cittadino e allora lì potrete constatare che lei è sommersa dalla malinconia, che la permea come fosse acqua che si infiltra nelle stanze dalle finestre aperte e dalle porte, con la città e la gente che giace in fondo a questo strano stagno. Ed è questo che rende la città romanticamente perfetta come fosse il ricordo di un vecchio amore.

A vederla di sfuggita, però, potrebbe sembrarvi soltanto una strana perenne foschia.


"Cudna Jada od Mostara Grada"
 Quella strana tristezza della città di Mostar

Arriviamo a Mostar: la culla della Cultura dell'intera Erzegovina.

Mostar, è un poco piu complessa, o forse io la conosco meglio nei suoi meandri. La città del ponte è un'attrazione per turisti, che nasconde qualcosa d'altro dietro la maschera delle belle architetture ottomane del XV secolo ricostruite pochi anni fa.

La realtà di Mostar è un grande gioco di ruolo (in cui gli stranieri recitano perfettamente la loro parte). Tutto -sappiate- segue uno schema ben preciso dove il gioco è capire chi o che cosa si nasconde dietro l'apparenza di una normalità. Una volta scoperto, il gioco continua però fingendo di non sapere niente.


Mi spiego meglio, ma la prendo un po' alla lontana: la città, dopo essere stata sventrata e svuotata, è adesso occupata da uomini che provengono dalle campagne. Bifolchi, villani, contadini, terroni, zappatori, campagnoli: sono questi i nomi spregiativi che, anche da noi, la nostra borghesia cittadina ha -tempo fa- adottato per descrivere un universo di uomini incolti e maneschi, un universo umile e arretrato, illuminato soltanto di lontano dalle luci che provengono dalla cultura raffinata del borgo.

Insomma, la guerra ha spinto i bifolchi a radunarsi nei centri urbani, scacciando i nativi affezionati alla loro Mostar, contaminando le consuetudini degli abitanti, creando una nuova generazione di villici-urbani. Da queste parti sanno meglio di noi chi sono gli uomini che vivono lavorando la terra: creature cresciute nell'isolamento e nell'ignoranza, e non -come pretendiamo a Milano- filosofi, eremiti o gente genuina di buona famiglia alla ricerca di un contatto con la natura.

Il risultato è che a Mostar, nel pieno centro della città, attualmente, si respira la stessa aria, vitalità culturale e mentalità che riconosco nelle desolate periferie delle grandi metropoli, dove si rintanano i burini e gli ignoranti, reietti dalle elite del centro città. A guardar bene, ci rivedo la mia prima adolescenza a Ponte Nuovo, dove sono nato, in fondo a via Padova, a Milano: mentalità chiusa, giovinezze sacrificate al nulla, incapacità al dialogo, mormorii di paese, sbruffoni, clientelismi e mafie. Ma io ora, vivo nel centro di Mostar, la capitale culturale dell'Erzegovina, letteralmente la famosa “città del Ponte Vecchio”: curioso, per me che vengo da Ponte Nuovo, non notare quasi la differenza.

Dietro ai pittoreschi tuffatori dal ponte che si lasciano fotografare dai turisti, esistono poteri legati alla territorialità della zona vecchia, dietro a un bar si nasconde un covo, dietro a una divisa si nasconde un fiancheggiatore, dietro a un'organizzazione di volontariato si nasconde una truffa, dietro ai frati si nascondono le armi, dietro l'Università si nasconde il nazionalismo, dietro ai miracoli di Medjugorie si nasconde una bestemmia.

Le regole del gioco , alla lunga, diventano intriganti. Tutti sanno tutto e tutti si comportano come se non sapessero, forse per consuetudine, forse perchè non c'è niente da fare, forse perchè il mondo gira sempre dalla stessa parte e non si può mica invertirlo dall'oggi al domani.

Ho parlato di città per non parlare della gente, delle persone. Voglio raccontare solo la lampante contraddizione di una società che non intende funzionare, evolversi, guardare al futuro.

Oggi in Bosnia, è l'individualismo sociale , anche all'interno delle stesse città che vince.


Balkan Zen

Questo posto mi fa diventare matto nella sua perpetua inqualificabilità, nella sua impossibilità di incasellarlo bene nelle mie semplici categorie da ragazzo beneducato. In questo luogo, i contorni non sono nitidi, e il buono e cattivo si compenetrano come lo Yin e lo Yang, come la superficie evanescente tra due liquidi che si vanno a mischiare.

Mi fanno arrabbiare qui, e non solo perchè c'è tanta gente che – perdonate la sincerità- con noi ha tirato a fottere. Un territorio tanto vasto, una intera nazione, che ospita giusto gli abitanti dell'hinterland Milanese, 4 milioni di persone che si industriano e si impegnano per vivere il piu possibile lontano l'uno dall'altro, perchè non ci si fida di nessuno. E quando vivono vicini, quasi fosse una disgrazia, ancora ci si ignora o si vive nella paura. Ho girato alcuni luoghi più remoti di questo paese e -vi giuro- sono rimasto sbalordito per l'impraticabilità di certi insediamenti, di certe case in cui vivere, il più possibile lontano da ogni possibilità di socializzazione. E per Socializzazione non intendo Amicizia, ma la disponibilità ad aprirsi per creare una società. Fin troppo, qui le cose funzionano solo tra “amici”, e si chiudono invece le porte con tutto il resto del mondo.

Aspettate – vi ripeto - a giudicare in Bosnia prima di averci fatto il callo, e rinunciate al piacere che vi da la sicurezza nell'avere un'opinione a riguardo di questo paese, di questa gente.

Per questo io semplicemente osservo e racconto -nulla di più- la mentalità immobile come uno stagno, immobile nonostante le cose siano cambiate così tanto negli ultimi 20 anni. Vi racconto la mancanza di partecipazione e di fiducia nel cambiamento, il rammarico perchè per il mondo la Bosnia esiste solo per il dolore che c'è stato, ovvero l'ennesimo massacro di questo luogo che pare destinato ad incarnare l'orrore della Europa Moderna, costringendo questa gente a portarne questo peso e ad identificarsi nell'umiliante ruolo di martire per risevegliare le attenzioni della Terra e soprattutto i suoi quattrini.

La Bosnia è , secondo un detto di qui, la terra dove vengono a fottere i lupi.

A Damir, Veka, Edita, Dex , Hamsa, Marijana, Ilvana, Sead, Nedim, Nerina, Ozana, Tamara, Maja, Josip, Hara, Nani, Lili .... e a tutte le persone che qui disobbediscono ai lupi e hanno il coraggio di provare a essere felici. Ai veri cuori ribelli di questa storia. Alla stilla di poesia nella prosaicità della Bosnia che finalmente potrò portermi a casa.


A casa, perchè, da oggi, anche questo viaggio è finito.

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Pacifismo e fastidio

- Post Traumatic Stress Disorder -



Adesso ti racconto una storia: quel giorno, stavo facendo un bagno lungo il fiume, vicino ad una zona controllata dai Croati.... Eravamo bambini, ci divertiva avvicinarci alle spalle dei croati, era un po come fargliela sotto il naso. Quel giorno – dicevo – avevamo attraversato a nuoto il fiume e stavamo lì sulla sponda croata, pensando di non essere visti...quando a un certo punto, vediamo sbucare fuori un soldato croato che guarda giù nel fiume e ci grida “Hei voi fermi!”.

Noi, presi dal panico, ci tuffiamo in acqua e proviamo a scappare a nuoto, quando sentiamo il croato che si gira e corre nell'erba gridando” passami il fucile! Passami il fuci...” BAAAM!


Ah ah ah....non ci potevo credere....ah ah ah...il croato...

No dico....ah ah ah....” - si asciuga gli occhi dalle lacrime - “ è saltato....ahh ah...su una mina! Ah ah...

ah ah.... e ....scusa...ah ah ....la sua....gamba...ah ah... ci è caduta davanti alla faccia!...ah aha ...mentre...nuotavamo hi hi....ah ah .... con ancora tutta la scarpa!!!hahaaah...che ridere...”


Non c'è nulla da ridere, ma ci tengono a farmi vedere che loro se la spassano sopra. Non perchè lo abbiano superato ma perchè te lo vogliono fare pesare, il fatto che loro ci sono passati e tu no e ti ci ostentano una grassa ed isterica risata. Te lo vogliono dire, e se ne vogliono vantare. Te ne parlano subito come ragazzini che hanno trovato un tesoro. Loro si e tu no.

E' quasi identificazione. Almeno loro hanno e sono quello, perchè per loro, il resto è uno schifo, depressione e annientamento. Parla, parla della guerra a chi la guerra non l'ha fatta... la guerra, che dalla fogna più scura ti eleva d'improvviso al centro del mondo.

E io non ne potevo più.


* * *


Sono i PTSD people, ovvero soggetti che soffrono di un disordine psichico dovuto a uno stress riconducibile a un trauma avvenuto nel passato, spesso anche remoto.

La mia esperienza: un anno di permamenza e tre suicidi (tra quelli noti), in una città di poco più di centomila abitanti. Attenzione, la matematica dice "stiamo oltre alla soglia!"  La statistica può dare l'allarme, ma la probabilità non ha nè cuore nè testa. Chi sa spiegarne il perchè?

Perchè farlo oggi, in pieno tempo di pace?


Post Traumatic Stress Disorder.  E' facile: il trauma della guerra viene rielaborato  nel corso di lunghi anni  e cova come una brace sotto la cenere il sentimento di disperazione e autodistruzione  .

Ma se è cosi semplice, come mai proprio queste statistiche sono alle stelle?

Non illudiamoci di saperlo: nulla è di facile comprensione quando riguarda gli slavi del Sud . Qui non c'è nulla di semplice.

Questa sindrome post traumatica ha trovato un terreno fertile nella cultura  dai toni neri e fatalisti dei Balcani. Le guerre - ovunque! -ci sono sempre state e sempre ci sono stati i veterani alla John Rambo che dopo aver vissuto imparando a distruggere  e depredare, non sapevano più tornare a far parte della società civile. Questa  - con il suo carico di rammarico - è però una storia vecchia e arcinota. Poi, certo, bisognerà fare le opportune discriminazioni: chi torna in un paese che la guerra l'ha vinta è tutt'altra cosa, ma , a dire la verità, chi potrebbe dire di averla vinta, in Bosnia?....Suvvia! E' lapalissiano: hanno perso tutti. Ma non è solo questo, no.

Il trauma si insinua in una cultura marchiata di pessimismo e di orgogli fuori dal nostro tempo e cresce quanto potrebbe un virus in un corpo non vaccinato. Ma non basta. Il trauma che è stata la guerra ha sancito con il loro stesso sangue la transizione del loro universo valoriale. Non si oltrepassa la cortina di ferro rimanendo indenne! In terra di Bosnia, si nasceva comunisti e si morirà liberisti.

Chiedilo a chi è figlio di un partigiano, chiedilo a chi ha creduto nel compagno Josip Broz Tito.... o chiedilo  a un trentenne senza futuro.

Chiedilo a uno che ha fatto il soldato ... Forse voleva morire da eroe, in guerra,?... morire in gloria invece che in questa terra di nessuno.  Ma se la guerra non gli ha spazzato via ciò che rimane della vita, se anche non gli avrà privato degli arti con l'amputazione, o avrà ancor più docilmente risparmiato anche la sua famiglia , comunque si porterà via il suo senno poco a poco nel grigio di una esistenza vuota che non  è più in grado di rimettere insieme.

Allora, se "cadere" era glorioso in guerra e non è caduto, sarà ancor più romantico e filosofico quando acciufferà il destino di suo pugno, per sua stessa mano. Meglio un soffio  deciso sulla fiamma, una discesa inarrestabile da un ponte, un colpo a bruciapelo alla tempia, forte e veloce ed ancor più malinconico, piuttosto che guardarsi spegnere lentamente e inutilmente come un lume nel deserto.

Cerchiamo di capirlo, perchè segue una sua logica, drammatica e angosciosa, ma a cui restano appese ancora adesso, moltissime altre vite, da queste parti. Questo filo è uno di quello ancorati ai miei nervi che ancora mi legano con rimpianto a Mostar, la città del vecchio ponte sopra alla Neretva.



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Quel vago senso di Colperazione

Risentimenti Non Governativi



Uno. Due. Tre....fino a tredici.

E fra poco fan quattordici.


Quattordici anni di cooperazione, di investimenti europei, di lavoro culturale e ben finanziato sui diritti, sull'uguaglianza, la democrazia e la solidarietà... eppure la Bosnia, pesante quasi fosse un mammut, è rimasta ferma come in una fotografia.

L'indolenza e l'immobilità di uno stato sono certo il frutto degli atteggiamenti irresponsabili della classe politica e dell'economia che ristagna ma di sicuro anche della mentalità inerte dei cittadini. Ma chi viene in aiuto?


A partire dal 1995, nella Bosnia annientata dal conflitto, si sono inserite, nel circo degli attori che concertano lo sviluppo di un territorio, le ONG, ovvero gli Organismi Non Governativi internazionali animati dalle migliori istanze della cittadinanza attiva, forti delle loro esperienze nei paesi d'origine e della vicinanza alla gente. In altri termini, forti del patrimonio valoriale che invece le istituzioni non hanno mai saputo raccogliere, con annesso però il loro carico di fallimenti pluridecennali di progetti finiti in bolle di sapone nei cinque continenti del pianeta.


Uno, due tre... ne sono passati quattordici. Sarà forse il caso di mettere sul piatto un paio di considerazioni elementari: in quattrodici anni non si cambia la testa di un popolo che ha condotto una guerra civile di quattro anni, non si completa una transazione culturale, tantomeno si ricuciono quelle ferite che hanno invece l'aria di essere amputazioni.

Sarà il caso di aggirare la retorica delle reclame cerimoniose di chi si auto-incensa e sarà anche il caso di domandarsi quali siano le reali potenzialità (per quanto diversificate), quali i mezzi e le finalità della cooperazione internazionale. Sarà il caso, purtroppo, di considerare l'opzione che sia un errore di valutazione pensare che le organizzazioni umanitarie vengano a salvare il mondo (o fosse anche solo più modestamente una nazione).

Cascarci, soprattutto per gli idealisti non addetti ai lavori, è facile: sono i rischi della comunicazione retorica e la brutta tentazione di chi è stato bene educato, credere che si possa fare giustizia in un mondo che non va.

Si possono fare buone cose -è vero- ma non si inverte il sistema.

Il punto più debole è che soluzioni semplici a problemi complessi - e forse ancora di più, persone semplici che vi si approcciano - non possono far altro che aggravare i nodi che si pensava di andare a sciogliere. In altri termini, chi e come muove le leve che dovrebbero far progredire economicamente e culturalmente un paese?

Attenzione: le buone intenzioni sono moventi perfetti per le piu grandi catastrofi, e il mondo, da sempre, ne dispensa innumerevoli sia delle prime che soprattutto -tristemente- delle seconde.

Le Organizzazioni Non Governative realizzano progetti in aree critiche del pianeta, talvolta con risultati positivi e proficui, talvolta fallendo in buonafede i propri progetti, talvolta realizzando progetti formalmente riusciti ma del tutto inutili e autoreferenziali, finalizzati più a giustificare i soldi spesi che non ad avere un impatto positivo sulla società in cui pretendono di lavorare.

Purtroppo, talvolta, accade che le organizzazioni, inserendosi in società “aliene” realizzino più danni che benefici.

Oggi, in Bosnia, queste stesse organizzazioni, richiamate da nuove emergenze (i.e. nuovi appalti e, quindi, occasioni lavorative – per quanto brutale possa essere questa definizione) stanno lasciando il paese, conscie di non aver portato a termine il lavoro.

Lasciando”, nel senso di abbandonando, ma non per forza per questioni di avidità o disinteresse. Il problema è connesso indubbiamente con i finanziamenti che le stesse organizzazioni possono (o meglio, NON possono) avanzare la pretesa di ricevere per un paese che non rappresenta più agli occhi del mondo una “emergenza”.

Il lavoro sui diritti umani, sulla convivenza interetnica sul multiculturalismo in questo paese rimangono sospesi, interrotti oppure lasciati in mano alla iniziativa e alla buona volontà di poche persone o organizzazioni che possono contare su scarse risorse e sul lavoro dei volontari che si susseguono in questi luoghi, incuriositi da quel buco nero dell'Europa che sono i Balcani.

La Bosnia: per qualcuno, il “cuore” dell'Europa, per qualcun altro -invece- niente altro che lo sfintere del Vecchio Continente.

Sono state spese molte ricerche, parole, interessi piu o meno accademici su questo tema, per cui lascerò alla curiosità dei lettori l'approfondimento su argomenti quali la cooperazione decentrata, lo sviluppo partecipativo e i meccanismi virtruosi che sono stati individuati per garantire la sostenibilità a questi progetti.

Mi preme però parlare in questa sede dei risultati concreti degli interventi umanitari in Bosnia finalizzati a ristabilire la pace e la convivenza lì dove invece l'autoritarismo Titino era stato capace ma dove hanno fallito i “democratici” interventi delle organizzazioni internazionali e umanitarie.

Nel caso di questo paese, cosi poco abituato alla partecipazione e alla democrazia, il confronto fra i due modelli ha drammaticamente dato ragione alla forza piuttosto che alla reagionevolezza di un approccio -per forza di cose - piu blando ma libertario come quello proposto dalle ONG.


Nella Bosnia del 2008, hanno ormai tutti imparato a memoria i precetti – ai loro occhi – melensi e vuoti che l'Europa Unita sta cercando di instaurare in questa neonata e piccola repubblica. Una cosa, cerhiamo di capirlo, è imparare la lezione a memoria, e tutt'altra è crederci.

A Mostar, per citare un esempio a me noto, formalmente, non esiste progetto che non convolga questa e quell'altra parte, non esiste azione che non sottointenda la riconciliazione dei due (tre?) gruppi, ma la memoria dei balcanici è dura a morire e non si illuda nessuno che quattordici anni di cooperazione possano sovvertire i riscoperti odi atavici o , peggio ancora, quelli drammaticamente più recenti.

La cooperazione è un lavoro. Ma, in linea di principio, la solidarietà non dovrebbe essere monetizzata. E i bosniaci hanno imparato che attorno a questa solidarietà girano i soldi e molti ci entrano solo per guadagnarci qualcosa. E' comprensibile, certo, ma è pericoloso scambiare il profit per il no-profit, soprattutto in una società frantumata e instabile di un dopoguerra.

Attenzione. Si rischia di svuotare i concetti dei loro significati. Volontariato, Ecologia, Partecipazione, Multiculturalismo, Tolleranza.

Si corre il rischio di pubblicizzare valori per contratto, ottenendo l'effetto contrario, diffondendo i valori opposti, quali l'opportunismo o la falsità.

Quanti casi sgradevoli mi sono capitati in un solo anno, proprio nell'ambito umanitario! Allora potrebbe anche capitare che un sedicente volontario pretenda soldi per la sua prestazione, potrebbe succedere che qualche collaboratore che fino a ieri ha lavorato con i bambini si presenti a riscattare ciò che gli spetta con un minaccioso energumeno, oppure che giovani poco più che maggiorenni invitati in Italia si spaccino falsamente per gruppo multietnico, sapendo che quello è quanto gli italiani vogliono sentire dire, seppur non rispondente al vero.

La Bosnia talvolta ti si appiccica addosso come la marmellata, proprio perche si fa anche odiare.

Perchè ci sono storie di umana compassione che si mischiano all'umana antipatia nei loro riguardi. Un sorriso, una lacrima e una coltellata nella schiena.

La bosnia non esce dalla sua palude decennale perchè non c'è nessuno che nuota nella direzione giusta, e rimane impantanata nel fango.

L'interesse della gente per l'immediato si scontra spesso con i progetti che invece pretendono di guardare al futuro....evidentemente c'è qualcosa che non va. Sono tanti gli stranieri qui che si interssano più ai progetti che alla utilità per la malridotta società bosniaca. Sono tanti i bosniaci che non hanno nessun interesse per i progetti e gli intenti degli stranieri. Sono tanti i soldi che giravano e continuano a girare qui e i bosniaci lo sanno. Sarebbe forse ora di chiudere il rubinetto e ripensare la cooperazione in termini di intercultura e collaborazione.... non so se è possibile.

Sono tanti i bosniaci che ostentano altezzosità e aperto sdegno alle migliori intenzioni, anche di noi italiani. Sono tanti, però, anche i bosniaci che vivono con una tragedia alle loro spalle e con nessuna prospettiva per il futuro. E' proprio lì che smettono di nuotare, quando non vedono una meta, e si agitano in tutte le direzioni come se volessero andare a fondo il piu presto possibile.

Ho speso un anno della mia vita (è poco, lo so!) immerso nella cooperazione, scandalizzandomi per gli internazionali che continuano a finanziare progetti inutili alla Bosnia ma utili a costruirsi una buona immagine in patria, alimentando una ulteriore separazione nella già spaccata società mostarina, aggiungendo disgeregazione a disgregazione, creando la “classe” di coloro che beneficiano dei denari internazionali per riempirsi la bocca, ma soprattutto le tasche, di buone intenzioni fasulle in cui non credono, vanificando le migliori istanze di chi, nel resto del mondo, crede che le organizzazioni vengano a svolgere un lavoro difficile ma utile. Ho speso un anno della mia vita con l'impegno personale di non cascare nella contraddizione di chi viene qui da internazionale per curare i propri interessi più di quelli della società in cui è stato chiamato ad operare. Ho speso un anno per fuggire il concetto che la mia presenza qui fosse dovuta a compassione o al mio senso di colpa di giovane beneducato ma, invece, ad una solida volonta di apertura e amcicizia che non mortificasse nessuno.

Ho speso un anno a conoscere uomini e donne di Mostar e sforzarmi perchè loro riconoscesseo in me un uomo come loro, che non avesse l'obiettivo di sfruttare la loro precaria situazione per poi destinare i fondi con indiffirenza a quelli che da sempre ne beneficiano a discapito della città che vede quei denari spesi nominalmente per loro ma finire sempre negli stessi portafogli.

Ho messo un po di cuore in questa città, e anche un anno della mia vita, e ora...si, insomma, ormai la città è anche un po' mia. Per strada vengo riconosciuto e salutato, ed è piacevole sapere di avere degli amici non solo tra gli internazionali, ma di essere riusciti a costruire legami con gli abitanti della città. Forse è questa la vera cooperazione, e non parlo per iperboli.


Se sono riuscito nelle mie intenzioni?

No, ovviamente. La domanda era volutamente retorica.

Se in quattrodici anni non si risolvono i drammi della Bosnia, in un anno non si scalfisce neppure lontanamente un sistema che ha già la metà dei miei anni.

Ma ciò che conta per me è che i mostarini, comunque vivono ancora li. Conta che Mostar ancora richiami giovani volontari da tante parti del mondo, che magari arrivano (come forse lo ero anch'io) totalmente impreparati, non conoscendo a fondo questa realtà. Talvolta questa impreparzione, questa approssimazione delle conoscenze può dare fastidio, è vero, ma spesso lo spirito di collaborazione e la vitalità dei giovani possono essere anche terapeutici. Si tratta solo di stabilire i giusti ambiti di intervento. Qui hanno bisogno anche di spensieratezza, e gli innumerevoli internazionali spesso poco più che 18enni, motivati e ansiosi di trasmettere la loro giovialità magari lavorando nella animazione piuttosto che partecipando alle molte attività in corso, alla fine, sanno trasmettere una, forse effimera, serenità.

C'è bisogno di gente e sorrisi, forse anche piu che soldi o progetti autoreferenziali (o semplicemente “nominali” di tante organizzazioni). C'è bisogno di gente che si “sporchi le mani” a stare con loro.

C'è bisogno di rompere l'isolamento. C'è bisogno di mani, di cuori e di teste che pensano.


In Bosnia, c'è bisogno.

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Epilogo


La Bosnia sta sospesa nel vuoto, isolata come la luna quando è piena.

Loro non avrebbero scelto le stesse parole per definirsi. Sicuramente, di
loro stessi, i bosniaci, farebbero uso di una metafora ben diversa in cui si
inserirebbe nei migliori dei casi la figura della morte, oppure quella di uno
sfintere e di ciò che esso può produrre.
La Bosnia è sola e non cerca un aiuto. Sola con quell'orgoglio anacronistico
figlio della sua storia che non le permette di domandare niente a nessuno.
In questo mi somiglia anche. (Più nella solitudine, che nell'orgoglio.)
Non è Europa e non è America, non è nemmeno Russa o Serba, e
figuriamoci se è Croata. Non è Cristiana (e se lo fosse non sarebbe né
Cattolica, né Ortodossa) e non è Islamica.
Non è laica, ma neppure osservante.
Non è in guerra , ma nemmeno in pace: le ostilità sono solo state rimandate
al momento -molto prossimo - di chiudere i conti, quando si andrà fino in
fondo alla questione sospesa a Dayton dal '95.
Non è ricca, ma non è neppure povera.
Non è in emergenza ma la crisi da queste parti suona come sottofondo da
sempre, tanto che non si ricorda più nemmeno quando è iniziata oppure se
mai non ci sia stata.

L'ho assaggiata, la Bosnia: all'inizio si apre con un sapore dolce oltre ogni
misura, denso, pieno.
Poi cambia, impasta la bocca in una sorsata salata che ti lascia stupefatto.
E' dolce, come il miele, e salata, come il sangue.
“Bal” - ”kan”.
Dal Turco, l'unione delle parole che significano ”Sangue” e “Miele”.

Ma loro ...no, avrebbero usato parole diverse per definirsi.
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