Il Filo di Arianna
(Io ve lo dico prima: prendetevi una mezz'oretta)
Un insolito incontro.
Il Bafometto rideva avvolgendosi in lunghe spire con la sua coda
appuntita, scoreggiando aliti di zolfo e fiamme dal culo, agitando le
ali da pipistrello fra le anime della geennah.
Le fauci bavose gocciolavano sangue umano e sterco di capra nel digrignare i canini appuntiti del suo ghigno bestiale.
E l'eco della risata impazziva i dannati.
Nel settimo girone dell'inferno i diavoli e le satanasse festeggiavano
con un orgia il malocchio riuscito, il successo di Azazello, che sotto
lo pseudonimo di Manolis da Chania, regalava ad un uomo i sassi
incastonati nel sentiero della città infernale di Dite.
Ma questo è successo dopo.
Prima vi è solo la storia di un giovane italiano, emigrante sull'isola
che fu del Re Minosse, e che diede i natali alla fame sanguinaria del
Minotauro.
Ed è la sua, quella del giovane italiano, una storia che conoscete, che
avete seguito lungo la strada percorsa insieme attraverso i portali
telematici di internet, leggendo in lettere i suoi progetti e le sue
sensazioni, codificando i bit in pagine di un Blog, che svela la trama
della sua avventura.
Niente altro che un gioco di specchi dove di riflesso, conoscerete il
volto del demone Azazello dalla minuta descrizione che vi darò se
procederete con coraggio la lettura di queste pagine virtuali: sono le
pagine che contengono la cronaca di un incontro a cavallo fra la
dimensione terrena ed il regno delle anime perdute. Consegnata agli
uomini da chi l'ha vissuta in prima persona.
"Ora che è finita, mi sento al sicuro.
Eppure persistono i brividi sulla pelle a ripercorrere con la memoria la
casualità di quell'incontro, in una sera di domenica alla metà di
maggio.
So bene quanto possa suonare assurdo il resoconto di questa vicenda ad occhi esterni.
Non ditelo a me che la scienza la faccio di mestiere.
Ma quando la percezione della verità risale dalle chiappe, anzichè dal
cervello, allora lasciate che mi scrolli di dosso tutte le occhiate di
scetticismo degli scientisti e degli illuministi, lasciatemi ridere di
questo buon senso che ci hanno insegnato a forza, e soprattutto,
talvolta, lasciatemi solo a riflettere per i fatti miei.
E lasciate, per favore, che ancora mentre scrivo, interrompa la
battitura per stringere il corno rosso con la mano destra, ed i
testicoli con la sinistra.
Perchè il maloccchio, è una cosa seria, sapete?
No che non lo sapete, ma ora ve lo dico io.
Stavo percorrendo il più bel periodo della mia vita.
Me lo ripetevo nella mente quando contemporaneamente guidavo la mia moto
in mezzo ai tornanti della strada alle spalle della catena dei Lefka
Ori fra le curve a picco sul canyon della gola di Torolìa.
Provenivo dal paradiso di Elafonissi, dopo la notte passata all'ombra
della foresta di cedri di hedrodassos, ad ammirare la superfice di vetro
di un mare vergine dai fondali farinosi di sabbia bianca.
Ad Heraklion città mi attendevano occhi verdi come il prato, e io
giust'appena mi ricordavo che poco prima passavo la notte appartato con
la luna, mentre adesso per stelle contavo le lentiggini di quest'altra
creatura.
E guidavo sporco di sale, pensando che quella che allora era la mia
vita, era proprio come in effetti me la immaginavo nei sogni migliori,
senza neanche l'ansia di un risveglio inopportuno.
Ricordo che ero felice.
E pensavo a divorare la strada, come sentivo che dovevo divorare la vita come fossi una fiera.
Ma la strada da correre era lunga, mancavano ancora 150 km per rivedere i
suoi occhi verdi e allora pensavo che mi ci voleva una pausa lungo la
strada.
Contemporaneamente facevo ingresso in un villaggio che conoscevo bene,
quattro case in croce che avevo attraversato almeno 50 volte, di cui
avrei potuto disegnare la mappa ad occhi chiusi.
Tutti gli edifici si affacciavano sull'incrocio delle due strade principali: a destra per Chanià, a sinistra per Elafonissi.
Solo una piazzetta sorgeva a lato dell'incrocio, una piccola terrazzina
che si intrufolava nel baratro di un burrone, nella quale si ergeva un
banale monumento ai caduti , una ringhiera e due panchine.
Anche i vecchi seduti sui tavolini prospicienti al bar sembravano far parte dell'architettura cittadina.
Sempre gli stessi , sempre seduti nelle stesse sedie a bere un caffè infinito, che avevano cominciato venticinque anni fa.
Potevo ripassarci a distanza di settimane e scattare due fototgrafie, e
concludere che senza dubbio era sempre lo stesso scatto.
Lo stesso panorama, le stesse persone con il vuoto lungo l'espressione.
Io ero stanco come un cane e necessitavo di rifocillarmi prima di
affrontare la lunga corsa sulla National Road per Heraklion,e allora mi
sono fermato, distrattamente, presso la drogheria del paese a comprare
del succo d'arancia per ripristinare le vitamine per il viaggio verso
casa.
Ricordo ogni particolare di quel giorno, come fosse un'ora fa.
Ho parcheggiato la moto a fianco della piazzetta, appoggiato il casco
sul manubrio e con lentezza scendevo e mi dirigevo all'interno del
negozio.
Il greco che vendeva le bibite era un uomo grosso e ruvido che sembrava curarsi poco di me:
con indifferenza pagavo il mio succo d'arancia, uscivo dal negozio e mi
sedevo su una delle due panchine della piazzetta deserta, sorseggiando
dal beccuccio del tetrapak.
Guardavo gli alberi a ridosso del burrone, bevendo e fumando, quando
d'istinto mi girai e vidi quell'uomo che, stranamente, non avevo notato
prima, seduto sulla panchina di fianco la mia, che mi fissava da dietro
gli occhiali scuri.
Mi sentii immediatamente a disagio.
Era decisamente curioso: un anziano dai capelli d'argento ricci e lunghi
fino alle spalle, non molto alto, quasi tarchiato, vestito come non si
addice ad un uomo della sua età e ,spavaldo, incrociava le gambe mentre
sedeva.
Aveva degli stivali addosso, nonostante la calura afosa della giornata,
jeans pesanti ed una camicia -anch'essa di jeans- che gli copriva la
cintura e una grossa pancia sporgente.
Sopra a tutto mi colpì quel suo gilet in pelle nera, invernale e
pesante, su cui ricadeva la barba lunga ma ben tenuta, sicuramente
coltivata da molti anni.
E quegli occhiali scurissimi, grandi, che non lasciavano intravedere al
di sotto le pupille, occhiali dal disegno giovanile e accattivante,
decisamente troppo giovanili per un uomo della sua età.
Ma che mi fissava lo capivo e soprattutto, non so come, lo sentivo sulla
pelle e sulla nuca quando mi giravo per evitare il suo sguardo.
Io sedevo silenzioso e lui guardava.
Il disagio nel sentire la pressione del suo sguardo mi fece scegliere di
cambiare di posto, piuttosto che sentirmi fissato a quel modo, quindi
mi alzai e procedetti verso le radici di un grande albero che sorgeva
lungo l'incrocio, per sedermivi accanto.
Contemporaneamente quello strano personaggio si alzava dirigendosi nella
direzione opposta: ci incrociammo passando uno di fianco all'altro
scrutandoci attentamente a vicenda.
Mentre io ostentavo strafottenza e indifferenza, lui non nascondeva la sua curosità nei miei confronti.
Nel momento in cui passammo uno di fianco all'altro, sollevò una mano
con l'indice puntato verso di me e contemporaneamente suonò uno schiocco
attraverso la bocca:"Sloc!".
Io, fra l'incredulo e il divertito, continuavo a camminare senza prestargli troppa attenzione e pensavo:" Và che pirla..."
Talvolta restiamo ammaliati dal modo di fare, dalla self-security di certi personaggi carismatici.
Quest'uomo, di carisma, ne aveva da vendere, si vedeva.
Ma al momento mi sentivo altrettanto carismatico e morbosamente concentrato sul mio stato di momentanea contentezza.
Seduto sulle grandi radici dell'albero, mi dimenticai di lui, e mi misi a
pensare cha avrei voluto avere dei gingilli, qualche cosa di simbolico
che mi potesse richiamare sempre alla memoria, la magia di quel periodo.
E fu proprio allora che notai dall'altra parte dell'incrocio una piccola
bottega che incredibilmente non ricordavo in quel gruppuscolo di case
che conoscevo a menadito.
Era un edificio di un solo piano con una veranda coperta al suo ingresso
dove il padrone aveva appeso all'esterno alcune straordinarie sculture
in pietra e legno dalle forme sensazionali, intriganti, per quanto
incomprensibili.
Erano spesso volti umani e trasfigurazioni, figure che si fondevano
l'una nell'altra senza cesure, corpi nudi che emergevano dalla roccia e
da tronchi di alberi.
L'intonaco delle pareti esterne era decisamente vecchio e logoro ma altrettanto suggestivo:
sullo sfondo viola della pittura si diffondevano uniformememnte macchie
bianche e gialle di scrostature del muro nudo, e un solo cartello stava
sullo stipite dell'ingresso, in legno grezzo dove erano state incise ad
arte tre lettere ed un numero che avevo studiato per anni.
Sul cartello era incisa la formula dell'Energia e della massa secondo Einstein.
Sorrisi. E pensai che fosse una curiosa coincidenza del fato, che io,
in fin dei conti un Fisico, non avessi mai notato quella epigrafe sacra
della scienza che dava il nominativo ad un laboratorio di arte.
E insomma, a farla breve, sentii una curiosità dettata dalla congiuntura
di segni del destino che mi richiamava a visitare quel posto.
Perchè io, quel giorno la sentivo fino al buco del culo una certa predeterminazione.
La Bottega del Rakì
Quando varcai con il primo passo la soglia della bottega, i diavoli
giù all'inferno si agitavano come mosche per l'eccitazione vomitando
sangue bollente e bile sulle anime disperate, strappando loro brandelli
di carne, unghie e capelli per la contentezza.
I centauri correvano per le lande infuocate trascinando per terra gli
spiriti addolorati e talvolta si fermavano per calpestarne le carni con
gli zoccoli e per pisciarvi sopra fetida urina, sul volto e sulle
ferite.
Nel frattempo io mi aggiravo, decisamente affascinato, fra sculture e amuleti in pietra e legno, dalle forme ambigue.
Un tronco di un albero era stato intagliato in modo che a seconda della
prospettiva vi si potessero riconoscere due volti differenti emergere
quasi abbozzati dal legno, e l'espressioni di quelle facce richiamvano
alla mia mente commozione e paura. Sotto la finestra, invece, da un
blocco di pietra rosa si libravano animali fantastici fusi nella roccia,
o meglio imprigionati ma vivi, come se venissero bloccati nell'atto di
scappare dall'incantesimo fatale della Medusa.
Chi aveva scolpito quelle cose non dormiva sonni tranquilli, pensai,
seppur ammirassi la fattura e l'originalità di quelle creazioni.
Tutta la bottega era in realtà un'opera: i tappeti sul pavimento e i
tendaggi colorati, le sculture appese ciondolanti dal soffitto
sembravano non aver bisogno di fili per fluttuare nell'aria, gli amuleti
ricavati dai sassi dell'isola che tempestavano le pareti violette
arredavano sapientemente uno spazio in cui non comparivano mobili, ma
solo personaggi usciti dalle opere di Salvador Dalì e da tutto
l'espressionismo, in pietra e legno animati dalle mani abili di un
Maestro.
Che strano, imbattersi in un posto del genere proprio quando, pochi minuti prima, fantasticavo di gingilli portafortuna.
Senza che lo cercassi mi trovavo esattamente nel luogo dove gli amuleti
ed i monili sembravano uscire dal cuore della terra affinchè un uomo li
tramutasse in opere d'arte.
E io non so bene come e quando quell'uomo entrò nella stanza, ma da
dietro a una tenda lo vidi sbucare fuori silenzioso, ancora con i suoi
nerissimi occhiali da sole, l'"artista", il vecchio dalla criniera
argentea che si rivolse a me in greco.
Con mia sorpresa, riconobbi il vecchio di prima.
Un saluto cortese, e si levò lentamente quegli occhiali.
In quel preciso momento, Beemoth, il demone-gatto degli inferi, scelse a
caso un anima nel girone degli invidiosi e ne strappava, divorandoli,
gli occhi con le zanne e con gli artigli.
Finalmente quell'uomo mi svelò il suo sguardo.
Ma che espressione hanno gli occhi di un demonio ?
Pensateci.
Forse le pupille saranno quadrate come quelle dei caproni, circondati da
iridi gialle e gonfie come braci sul punto di esplodere, solcate da
capillari rossi e corrucciate da sopracciglia folte dense di peli che
indicano il sentimento della sua violenza.
Forse le palpebre da coccodrillo si serrano lateralmente e le ciglia nascondono vermi avviluppati come alghe marine.
Forse.
Ma gli occhi di questo demonio qui, a guardarli bene, erano buoni, e ispiravano certamente fiducia.
Occhi grandi e scuri esattamente come i miei, castani e innocenti.
Portava sopracciglia spesse, è vero, ma finemente disegnate se
rapportate a quei suoi grandi occhi anziani, che facevano sì che in
quello sguardo si raccogliesse l'esperienza di un uomo avveduto con la
vitalità di un giovane a caccia di emozioni.
Sinceramente amichevole, si scrollava di dosso con facilità qualsiasi
accusa che lo volesse ruffiano, accogliendomi con garbata gentilezza e
ospitalità contadina, porgendomi un bicchiere di rakì casereccio come
segno di benvenuto nel suo piccolo e fantastico regno.
Accennai un sorriso, e appoggiai le labbra al bicchiere; poi lentamente
bevvi fissando il mio curioso ospite, e non appena ebbi ingoiata
l'ultima goccia, mi offrì una delle sue sigarette greche senza filtro.
Ne accettai una.
Parlammo per due minuti di tabacco e distillati, fino a quando la
conversazione divenne troppo complicata per la mia conoscenze di lingua
locale.
E iniziammo a parlare inglese.
Quest'uomo parlava inglese!
Un vecchio che per sua stessa confessione si era sempre occupato di
capre e olivi nella sua vita, che non aveva studiato, che viveva in un
villaggio sconosciuto della Creta agricola, e che solo tre anni prima
decise di cambiar vita per dedicarsi alla scultura e a far
perline...parlava inglese.
Non avrebbe senso, a meno che quell'uomo potesse parlare tutte le lingue
della terra perchè i figli di Satana in fondo conoscono il mondo e i
suoi segreti, meglio di chiunque altro.
Insomma, instaurammo complicità, e prima di sera, quell'uomo ed io divenimmo amici.
Amico di un diavolo.
Satana in persona urlò la sua gioia, e l'inferno tutto tremò.
La montagna del purgatorio sobbalzò ed anche i cherubini si intimidirono
al boato, la puttana Taide venne sollevata dalla merda affinchè le sue
carni soddisfacessero le voglie del cane Cerbero, e lo Stige allagava le
pianure degli ignavi, perchè il Malocchio era prossimo a compiersi.
Se sei bello ti tirano le pietre.
La chiacchierata era stata lunga e piacevole.
In qualche modo quel vecchio mi leggeva nella testa, e la tentazione di
aprirgli la mia mente confessandogli l'elenco delle mie paure e dei miei
progetti personali, mi vinse, e srotolai felicemente la lingua per
almeno un'ora.
Rakì e scultura, un pomeriggio a raccontarci le nostre storie passate e
pochi aneddoti divertenti, a fumare e brindare all'ombra della veranda
di un povero simpatico Diavolo.
Inutile dire che mi offrii di comprargli uno di quei suoi monili appesi alle pareti, ma il vecchio fece molto di più.
Mi mostrò un cesto in vimini colmo di sassi che erano stati intagliati e
scolpiti, che portavano disegni originalissimi personalmente scolpiti
da lui.
Mi chiese di sceglierne uno.
E d'improvviso, davanti ai miei occhi si apprestò a generare dalle sue
mani una nuovissima collana fatta appositamente per me, sull'onda di
una ispirazione germogliata dal nostro incontro.
Eccola: era un gioiello.
La indossai immediatamente, e cercai di pagarlo: invece di ricevere il
denaro, quell'uomo iniziò una lunga parbola di discorsi , e mentre
parlava giocava con le pietre e con il cuoio, aggiunse lamine di metallo
e perline di legno, e in men che non si dica mi creò da quelle sue
grosse mani da contadino, un nuovissimo e stupendo portachiavi per la
moto.
"E' un regalo.", aggiunse.
Io, sinceramente felice, lo accettai, ma ancora mi fermò nell'istante in cui tentavo di pagarlo.
Sparì un secondo dietro la tenda e tornò con un cesto di pietre
cristalline, quarzi, e ametiste. Quella cesta brillava come se
contenesse stelle cadenti.
Scelse una pietra dal mucchio, e disse:
-"Da qui nessuno se ne va, senza una di queste: tienila sempre con te, e ti porterà fortuna."
Vedete, qui si ferma il tempo.
Per una persona come me che si sente gravemente minacciata dalla
presenza di un gatto nero per la strada, credere di aver ottenuto un
pietra portafortuna da una specie di santone che le pietre le conosceva
bene come quel vecchio, era come avere vinto la lotteria ed il
totocalcio nella stessa giornata.
Entusiasta ammirai il bellissimo quarzo rosa di cui mi faceva dono,
puro, trasparente e appuntito come una specie di kriptonite senza il
carattere volgare da bigiotteria, ringraziai e nascosi in tasca il
minerale.
Finalmente il vecchio si lasciò pagare, e se devo essere sincero, il
prezzo fu sospettosamente politico: diciamo, meno di una salamella alla
festa dell'unita di Modena.
A quel punto, lo salutai caldamente, salii in sella alla moto, e, non
prima di aver ammirato un secondo allo specchietto i miei preziosissimi
monili, partii alla volta di Heraklion, bruciando con le ruote
l'asfalto.
L'enigma della Sfiga
Ma arriviamo finalmente al nocciolo di questa storia.
La notte stessa fui preda di un incubo curioso: sognai il vecchio,
Manolis, ospitarmi ancora nella sua bottega come il giorno prima a bere
rakì e fumare sigarette, ma la sua espressione, Diavolo!, non era
decisamente più la stessa.
Rideva quella notte, Manolis, di fronte a me imbarazzato che non sapevo
che dire, rideva sguaiatamente come un demonio, con una risata perfida
come perfida era improvvisamente divenuta l'espressione dei suoi occhi.
La bottega era sempre la stessa, ma di notte, la luce di un camino
acceso che la illuminava, la rendeva tetra, colma di vibrazioni
spaventose per l'animo tanto da farmela sentire una prigione, e il
vecchio, il mio carceriere.
Sudavo tanto di fianco alle braci del camino, ed ogni tentativo di
allontanarmi sembrava totalmente inutile: soffocavo, l'aria era pesante,
priva di ossigeno, con manolis che rideva sguaitamente come un cane,
come una iena bastarda, ed io incollato alla sedia che non respiravo,
incredulo, allibito e sudato per lo sfinimento.
Nel momento in cui la respirazione si interruppe nel sonno, quasi per reazione volontaria mi destai.
Sentii un bruciore al collo: toccai la pietra che ciondolava dalla mia
nuova collana e la trovai molto calda e non capii il perchè. Andai allo
specchio la guardai e mi riempii subito di vanità e dimenticai il sonno
agitato di prima e tutte le diavolerie...
Che cosa accadde una volta aver ricevuto dal diavolo Azazello, al secolo
Manolis da Chania, i sassi maledetti della città infernale?
Quali sortilegi, quali apparizioni, quali arcani malefici nascondevano quegli amuleti maledetti?
Sapete che cosa?
Niente,-ovviamente- non accadde niente.
Non erano altro che comunissime pietre.
Semplicemente da quel giorno accadde che la mia vita prese
improvvisamente e colpevolmente il sapore della normalità, della routine
maledetta che tutti gli uomini conoscono, l'inerzia di una esistenza
privata dell'entusiasmo che fino a quel punto mi aveva rivitalizzato lo
spirito.
Improvvisamente gli scenari naturali, avvizzirono ai miei occhi la loro
bellezza che fino a poco prima era in grado di commuovermi e di
ispirarmi alla tastiera.
Venni infettato dal morbo e dalla vacuità che affligge gli uomini
stanchi, e che procedono nella vita in attesa che qualcosa li desti da
quel coma apparente.
Perchè era proprio da questa malattia che fuggivo allontanandomi
dall'Italia, dalle continue ricadute che ciclicamente mi colpivano,
mentre stupidamente imputavo le colpe ad una città natale inospitale,
nonostante ben sapessi che i più gravi malanni nascono sempre
dall'interno (e non dall'inferno).
Ed è per questo motivo, credetemi, che d'incanto cominciai ad accusare
l'esistenza di sfighe meschine, di congiunture sfortunate che si
incaponivano contro di me, di una improvvisa solitudine affettiva che mi
affliggeva dopo aver speso un periodo fortunato di numerose relazioni
inaspettate con il sesso opposto.
Sembra quasi che vi abbia preso in giro.
Vi avevo promesso malocchi e fatture, streghe e incantesimi, e invece
pare che tutto fosse una banale malattia dello spirito, una volgare
banalità della vita.
Ma forse c'è di più.
Sì perchè in effetti, volendo essere veritieri ed abbandonando le
morali, i gatti neri che incrociavano la mia strada in quel periodo si
moltiplicarono, il sentimento di essere nel mirino di un fato avverso
era più che reale.
Non parlo a vanvera, lasciatemi spiegare.
Quando tornai dall'incontro con quell'uomo, sempre che di uomo si trattasse, ricevetti subito una telefonata.
A quell'epoca frequentavo una dolcissima bellezza dell'est europa dagli occhi verdi e dalle chiome biondissime.
Mi informò che il suo fidanzato, un muscolosissimo giocatore di hockey
cornuto come Satana, si stava recando a trovarla proprio in quei
giorni.....Inutile dire che dovetti sostenere in stoico silenzio le
crisi di gelosia, ed è inutile ribadire che dopo allora nulla fu come
prima e in conclusione ci perdemmo di vista.
E ancora, la moto diede per la prima volta segni di cedimento e i conti
del meccanico, oltre che puzzare di Zolfo e benzina, raggiunsero
diabolicamente cifre illeggibili, il lavoro toccò il punto più basso
del mio soggiorno cretese, sebbene il tracollo professionale si fosse
manifestato da tempo.
Ma quello che tuttora non riesco ad accettare fu la drammatica fine
delle mie fortune amorose: ormai abituato ad una vita sentimentale
movimentata e divertente , fui testimone di un cambio di rotta
devastante: le donne mi stavano attentamente alla larga, non ebbi più
occasione di frequentare le dolci bellezze che da tutto il mondo
provenivano a popolare l'isola.
Ebbi a temere di essere forse affetto da Alitosi Permanens Merdorae, o
che il dopobarba avesse assunto l'aroma di Urina Gattorum o che le
ascelle ospitassero colonie batteriche di stafilocochi scoreggiferi....
Mi controllavo allo specchio dieci volte in una giornata per scoprire se
per caso avessi mazzi di basilico incastrati a cavallo degli incisivi, e
incominciai a vestire di bianco per nascondere eventuali depositi
geologici di forfora sulle mie spalle.
Niente, presto mi arresi alla nuova condizione non-scelta di solitudine e
fu allora che realizzai ciò che scrissi poche righe sopra, cioè che le
fortune sono una conseguenza dell'attività dello spirito.
Perciò decisi di scrollarmi di dosso, oltre che la forfora, l'inerzia
penosa che mi stava affliggendo, quindi saltai a cavallo della moto e
partii alla ricerca di nuove frontiere di umore per la salvezza del mio
animo, in fuga..
Circa dieci metri dopo, ebbi il mio primo incidente, e la storia penosa
di una infezione dilagante che mi costrinse a letto per un mese.
Se due indizi fanno una prova.....
Ora, il mosaico si faceva più chiaro e lasciava intravedere due corna
caprine che neanche il giocatore di hockey.... presi una settimana di
convalescenza in Italia, in cui ebbi modo di maturare le mie convinzioni
circa quanto stava avvenendo, e finalmente subodorai la puzza di zolfo.
Tornato a Creta, la prima cosa che feci fu raccogliere le pietre e dirigermi verso i bastioni a picco sul mare.
Le tenevo in mano quelle pietre, pronto a scaraventarle in mare, quando,
ammirandone la bellezza, si insinuò in me il dubbio che non fossero
maledette, e che fosse un delitto buttarle invece che tenerle con me
tutta la vita.
Allora chiusi gli occhi, e prima che questo pensiero potesse prendere
piede, prima che mi vincesse o che mi convincesse, le scaraventai in
mare, il più lontano possibile, soprattutto lontano dalla mia vita.
"Vade Retro, Manolis!.....Anzi, vaffanculo!"
Epilogo?
Quindi?
Avevo ragione? Ero in effetti vittima dei malocchi di un demone?
Onestamente, non potrei giurarlo.
Quello che vi posso dire è che già pochi giorni dopo essermi sbarazzato
di quelle pietre misteriose riuscii finalmente a concludere qualcosa nel
lavoro e che finalmente la moto tornava a ruggire come una fiera.
Ma questo è il meno.
Inaspettatamente, un giorno come tanti, mentre camminavo per i corridoi
dell'istituto, mi sentii chiamare da una voce femminile zuccherosa, ed
accadde che in meno di due giorni, quella stessa voce zuccherosa stava
sussurandomi nell'orecchio parole d'amore sotto le lenzuola della mia
camera da letto.
Alla faccia di Azazello, il Malocchio era finito.
Ora, lascio che siate voi a trarre la morale da questa storia.
Ognuno nella propria vita è libero di scegliere, di credere alle
fattucchiere ed ai maghi, oppure alla ragionevolezza della scienza.
Io non giudicherò, vi lascio il privilegio di ridere di questa favola
superstiziosa, delle credenze medievali e dell'occultismo di cui è
intrisa, vi lascio l'opportunità di schernire le orde di indemoniati che
nei gironi infernali covano rancore verso i vivi e sognano
l'opportunità di una prossima vendetta .... a vostro rischio, però ...
Fate quello che volete.
Io intanto me ne starò qui a sentire i raggi cocenti del sole
sull'epidermide, e il vento caldo accarezzarmi le orecchie ed i capelli:
me ne sto sdraiato sulle spiaggie dell'isola a prendere pugni di sabbia
nel palmo della mano e sentirne lo scorrere monotono fra i polpastrelli
mentre cadono i granelli di arena.
Fa caldo qui, oggi, oserei dire, un caldo infernale.
Allora mi sedrò all'ombra di un faggio, davanti ad un tavolino a bere il
mio caffè lentamente, a guardare dal ciglio della strada gli stranieri a
cavallo delle loro motociclette che sfrecciano in giro per l'isola a
caccia di souvenir portafortuna.
Sì, me ne resto qui con il vuoto lungo l'espressione, per un pò, a far
passare le perline di un koboloi in mezzo alle dita della mia mano, una a
una, prima in avanti e poi indietro e lasciare che con un colpo del
polso si arrotoli tutto intorno all'indice.
Siedo e guardo il paesaggio, identico a se stesso da migliaia di anni, vergine, bellissimo.
Non ho bisogno d'altro.
Non ho la fretta degli europei, non ho la smania ansiosa di rincorrere
una vita frenetica costellata di eventi che dimenticherò presto.
Io invece mi ricorderò di questo posto, lo giuro.
Ora però, è tempo di andare a casa."
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